Dal nostro inviato Francesco Greco
VENEZIA – Delicato, poetico, toccante. Ma anche ben calato nel XXI secolo, nelle sue viscere oscure, nel sottosuolo della modernità. Al tempo di una crisi spaventosa che provoca povertà e precarietà, fa perdere diritti che parevano acquisiti per sempre. Il default sospeso all’orizzonte delle nostre vite, la spending- review che insidia le nostre quotidiane certezze e ci scuote come un vento infido. Mentre, convitato di pietra, la politica, lontana, indifferente, è rapita nell’estasi sudicia dei suoi rituali castali.
Con “L’intrepido” Gianni Amelio, calabrese, si candida prepotentemente a un premio alla 70ma edizione della Mostra del Cinema. Il film è piaciuto alla critica e al pubblico: dieci minuti di applausi. Intriga la sua cifra politica che corre in parallelo con quella lirica, leggera, che corre sottotraccia.
Un film bellissimo, di un maestro del cinema. In cui un superbo Antonio Albanese, smessi i panni della satira politica sui vizi degli onorevoli (si fa per dire), veste quelli del precario disoccupato che sbarca la vita inventandosi mille lavori (muratore, spazzino, addetto ai grandi magazzini, ecc.) e che quindi non ha tempo da perdere. Lo chiamano “rimpiazzo”, come chi frequenta uffici di collocamento ben sa. Uno si assenta per malattia o altro e subito c’è da coprire un vuoto in organico.
Albanese non si inacidisce pensandosi inadeguato o sprecato. E’ uno di quei personaggi che incontriamo nell’autobus alle ore più strane, che ci siede accanto sulla metro. Silenzioso, dignitoso. E dallo sguardo colmo di luce si direbbe anche felice. O che comunque non incuba alcun tipo di risentimento o di velleitarismo verso il mondo. Magari in cuor suo aspetta tempi migliori. Ma se non verranno non ne farà una malattia.
E’ un personaggio modernissimo, sospeso fra l’ingenuità del Candido di Voltaire e la levità dello Charlot di “Tempi moderni” o del “Monello”. La storia raccontata da Amelio offre una chiave d’accesso a chi oggi non si adegua, non si mette in discussione ogni mattina, chi calato in una dimensione d’attesa senza confini, aspetta di fare quello per cui ha studiato e non capisce che bisogna adeguarsi, senza però rinunciare ai propri sogni. E’ il tempo della flessibilità. “E’ un film sulla dignità”, ha detto il regista in conferenza-stampa. Ha fatto eco l’attore pugliese (di Foggia), grato a Gianni Amelio per averlo chiamato: “Mi piaceva raccontare l’oggi in maniera diversa. Il tema vero sono i rapporti, lo sguardo pieno di speranza nel futuro…”. Nonostante tutto, il suo personaggio resta umano, non diviene torvo, cattivo, resiste alla tentazione di rinchiudersi in se stesso, ha lo sguardo aperto e franco, pieno di dolcezza. Non rassegnato, si badi: ma cosciente che la vita è un’avventura bellissima che chiede anche spirito di adattamento. Se verranno tempi migliori – ci dicono Amelio e Albanese - bene, altrimenti l’asprezza del rimpianto non rovinerà i giorni che ci sono toccati in sorte. E quel che più conta, avremo conservato la nostra dignità.
Il film contiene una denuncia sottintesa alla pseudocultura dei talent-shows che corrompono migliaia di persone. Meglio, pare dire Amelio, sistemare scatoloni al centro commerciale che morire in attesa di fare gli attori o pigiarsi come tonni al casting del Grande Fratello vivendo di illusioni e attese vane. Condiviso!
VENEZIA – Delicato, poetico, toccante. Ma anche ben calato nel XXI secolo, nelle sue viscere oscure, nel sottosuolo della modernità. Al tempo di una crisi spaventosa che provoca povertà e precarietà, fa perdere diritti che parevano acquisiti per sempre. Il default sospeso all’orizzonte delle nostre vite, la spending- review che insidia le nostre quotidiane certezze e ci scuote come un vento infido. Mentre, convitato di pietra, la politica, lontana, indifferente, è rapita nell’estasi sudicia dei suoi rituali castali.
Con “L’intrepido” Gianni Amelio, calabrese, si candida prepotentemente a un premio alla 70ma edizione della Mostra del Cinema. Il film è piaciuto alla critica e al pubblico: dieci minuti di applausi. Intriga la sua cifra politica che corre in parallelo con quella lirica, leggera, che corre sottotraccia.
Un film bellissimo, di un maestro del cinema. In cui un superbo Antonio Albanese, smessi i panni della satira politica sui vizi degli onorevoli (si fa per dire), veste quelli del precario disoccupato che sbarca la vita inventandosi mille lavori (muratore, spazzino, addetto ai grandi magazzini, ecc.) e che quindi non ha tempo da perdere. Lo chiamano “rimpiazzo”, come chi frequenta uffici di collocamento ben sa. Uno si assenta per malattia o altro e subito c’è da coprire un vuoto in organico.
Albanese non si inacidisce pensandosi inadeguato o sprecato. E’ uno di quei personaggi che incontriamo nell’autobus alle ore più strane, che ci siede accanto sulla metro. Silenzioso, dignitoso. E dallo sguardo colmo di luce si direbbe anche felice. O che comunque non incuba alcun tipo di risentimento o di velleitarismo verso il mondo. Magari in cuor suo aspetta tempi migliori. Ma se non verranno non ne farà una malattia.
E’ un personaggio modernissimo, sospeso fra l’ingenuità del Candido di Voltaire e la levità dello Charlot di “Tempi moderni” o del “Monello”. La storia raccontata da Amelio offre una chiave d’accesso a chi oggi non si adegua, non si mette in discussione ogni mattina, chi calato in una dimensione d’attesa senza confini, aspetta di fare quello per cui ha studiato e non capisce che bisogna adeguarsi, senza però rinunciare ai propri sogni. E’ il tempo della flessibilità. “E’ un film sulla dignità”, ha detto il regista in conferenza-stampa. Ha fatto eco l’attore pugliese (di Foggia), grato a Gianni Amelio per averlo chiamato: “Mi piaceva raccontare l’oggi in maniera diversa. Il tema vero sono i rapporti, lo sguardo pieno di speranza nel futuro…”. Nonostante tutto, il suo personaggio resta umano, non diviene torvo, cattivo, resiste alla tentazione di rinchiudersi in se stesso, ha lo sguardo aperto e franco, pieno di dolcezza. Non rassegnato, si badi: ma cosciente che la vita è un’avventura bellissima che chiede anche spirito di adattamento. Se verranno tempi migliori – ci dicono Amelio e Albanese - bene, altrimenti l’asprezza del rimpianto non rovinerà i giorni che ci sono toccati in sorte. E quel che più conta, avremo conservato la nostra dignità.
Il film contiene una denuncia sottintesa alla pseudocultura dei talent-shows che corrompono migliaia di persone. Meglio, pare dire Amelio, sistemare scatoloni al centro commerciale che morire in attesa di fare gli attori o pigiarsi come tonni al casting del Grande Fratello vivendo di illusioni e attese vane. Condiviso!