di Francesco Greco. LECCE - “La vita comincia a Spigolizzi!”, ripeteva il grande artista fiammingo di nascita e britannico d’adozione Norman Mommens. Lui e la moglie Patience Gray se ne distaccavano raramente come trattenuti nel Salento porta d’Oriente da una possente energia universale. Lei scriveva lettere agli amici picchiando sui tasti di una vecchia macchina (oggi i destinatari le rispediscono alla masseria “Spigolizzi”), collaborava a testate giornalistiche inglesi (“The Observer”), ispirata dalla natura selvaggia intorno disegnava splendidi gioielli usando a volte semi di piante spontanee. Lui preferiva regalare le opere anziché venderle. Lo intrigava più lo stupore del suo pubblico, sempre più folto e cosmopolita, intellettuali di spessore, che una performance in una galleria d’arte europea.
Il sogno di un ostello, una scuola per artisti di tutto il mondo, fu riposto nel cassetto nonostante il progetto fosse alla stadio ultimo. Gli “inglesi” (così erano noti nella zona) erano dei militanti: si batterono (Anni Ottanta) contro l’ipotesi di una centrale nucleare nel Capo di Leuca. Non teorizzavano e basta: difendevano con coerenza valori antichi eppure moderni, perché universali. Vissero dei doni dell’orto e dei campi attorno, fecero della frugalità una filosofia di vita. Mommens affidò le sue riflessioni estetico-filosofiche a “Remembering Man” (Levante Arti Grafiche, Presicce, di Rolando Civilla e Luigi Quaranta).
Mommens e Gray si possono considerare gli antesignani della “decrescita felice” teorizzata anni dopo dal filosofo francese Serge Latouche. Norman rifiutò la cattedra offertagli da Cecil Collins alla prestigiosa “Central” di Londra “per non distaccarsi dal suo orto - sorride il figlio Nicolas – i contadini del circondario, la sua vita, così attaccata alla terra, erano molto più importanti: il mondo dell’arte internazionale non faceva per lui…”. Lo scultore Vito Russo, un altro grande, che ai “Fani” era di casa, svela che la masseria era costata 3 milioni e mezzo e che l’artista morì agli inizi del 2000 a causa di una caduta dal letto mal curata.
Ma chi fu davvero Mommens, un grande che ha segnato l’arte del XX secolo, un artista multiforme, globale, da scannerizzare con studi specifici (in foto due opere: “Pace nel Mondo”, acrilico e “Resurrezione di Lazzaro”, scultura) così plasticamente amalgamata con la biografia? Antonio Pizzolante oggi è uno scultore affermato nel mondo: dalla Spagna all’Austria, dalla Turchia agli Usa (sta per andare alla Biennale di Firenze). Per anni frequentò la “comune” di “Spigolizzi”, mèta di artisti e intellettuali da tutto il mondo. Le loro lezioni hanno segnato profondamente la sua avventura nell’arte. E in questa intervista svela le infinite facce del personaggio, l’artista, l’uomo e della compagna della sua vita.
Domanda: Maestro, quando incontrò Mommens?
Risposta: “Alla fine degli Anni ‘70. Frequentavo l’Accademia di Belle Arti di Lecce quando conobbi lui e la sua compagna. La prima volta che andai alla masseria ero accompagnato da un amico comune, Vittorio Lia, ebanista di Patù, artigiano che conosceva i segreti del legno e da cui ho imparato molto. Spigolizzi si trova su una collina nell’entroterra delle marine di Salve. Mi parve un luogo incontaminato, inviolato, poco conosciuto anche dalla nostra gente. Era un sabato pomeriggio di settembre, ero curioso di osservare, scrutare lo studio di un vero scultore. Il lupo Pim avvertì il suo padrone: un omone alto, dai capelli brizzolati, arruffati, i lineamenti marcati, i modi gentili e ospitali. Dietro di lui la moglie Patience in controluce appariva ieratica come una Kore greca, decisa, determinata nel suo aplomb inglese”.
D. Quanto durò quella complicità intellettuale, da affinità elettive goethiane?
R. “Più di un decennio. Si affievolì solo con la partenza, mia e della mia famiglia, nelle brumose terre della Lombardia. Ma quando tornavo d’estate a Torre Vado andavo con piacere a salutare i miei amici inglesi. Fino a quel torrido pomeriggio d’agosto, quando dopo un affabile incontro ci accompagnarono al portone della masseria e capimmo che non lo avremmo più rivisto. Pochi anni dopo, una telefonata ci informò che Patience aveva raggiunto il suo compagno nei cieli tersi e le spumose nuvole sull’altura di Spigolizzi”.
D. Cosa ricorda di quei simposi alternativi quanto creativi ai Fani?
R. “Erano incontri fra amici motivati dagli stessi interessi creativi. Un salotto affollato: ricordo Umberto Palamà, Maurizio Nocera, Antonio Verri, Luigi Sergi, Vito Russo, Rosanna Renna, Mario Ricchiuto, Helmut Dirnaichner, il regista Klaus Voswinckel e la moglie Ulrike e soprattutto lo scrittore napoletano Andrea Giovene, amico comune. Ma furono in tanti a frequentarli e spesso a rimanere a cena e chiacchierare di arte, poesia, letteratura, con in mano un buon bicchiere di vino”.
D. Le confidarono mai perché scelsero il Salento per appartarsi dal mondo e perché vissero senza i confort della modernità?
R. “Dopo aver soggiornato in tanti luoghi, avevano bisogno di un punto di riferimento. Scelsero la campagna salentina perché era incontaminata e le stagioni avevano un loro ritmo. Si immersero nella sua solarità consapevoli che tanto potevano assimilare, ma soprattutto coscienti che un rapporto vero e radicato con il luogo poteva far vivere con pienezza la loro esperienza di vita. Qui Mommens riuscì a conciliare il fare e il pensare: faceva il contadino e pensava da filosofo, metteva questi due ruoli sullo stesso piano: per lui ebbero la stessa importanza”.
D. E di Patience Gray cosa ricorda?
R. “Era il colore complementare di Norman, l’unico colore. Donna di grandissimo intuito e acume di pensiero.
Il grande scrittore cosmopolita Andrea Giovene, dei duchi di Girasole, autore della <Autobiografia di Giuliano di Sansevero> (Rizzoli 1966-70), che di lei aveva molta stima, mi diceva spesso: <Caro Antonio, quella è una donna che sa leggere nel pensiero dell’interlocutore>. Proprio così: tra le tante qualità, lei aveva anche queste, oltre a chiarezza e schiettezza nel comunicare le proprie idee”.
D. Torniamo a Mommens artista, personaggio, uomo ancora da decodificare: chi è davvero?
R. “Uno scultore possente, simbolico, ancestrale, ma allo stesso tempo contemporaneo. Scultore di pietre, infinite pietre, marmo e arenarie, ma anche legno, ferro, bronzo. Era un artista con la consapevolezza di conoscere la forma fino alla sua essenza simbolica, capace di sottolinearne l’essere: nudo, essenziale, senza tempo, uomo, santo, Dea Madre. E poi era un pittore: di figure, luoghi, angeli, creature. Pittore di spazi, geometrie, sapienze, dense di pigmenti, terra, luci, ombre, oro e argenti, dosati a creare senso, alchimia, potere buono. Fu, ripeto, contadino, ma anche filosofo, un filosofo pratico che applicava il suo pensiero alla matematica e all’archeologia, l’ecologia e la politica, l’alchimia e la letteratura, la botanica e il teatro. Un artista armato d’inesauribile caparbietà creativa che sapeva raccontare in modo semplice concetti complessi”.
Il sogno di un ostello, una scuola per artisti di tutto il mondo, fu riposto nel cassetto nonostante il progetto fosse alla stadio ultimo. Gli “inglesi” (così erano noti nella zona) erano dei militanti: si batterono (Anni Ottanta) contro l’ipotesi di una centrale nucleare nel Capo di Leuca. Non teorizzavano e basta: difendevano con coerenza valori antichi eppure moderni, perché universali. Vissero dei doni dell’orto e dei campi attorno, fecero della frugalità una filosofia di vita. Mommens affidò le sue riflessioni estetico-filosofiche a “Remembering Man” (Levante Arti Grafiche, Presicce, di Rolando Civilla e Luigi Quaranta).
La Resurrezione di Lazzaro |
Ma chi fu davvero Mommens, un grande che ha segnato l’arte del XX secolo, un artista multiforme, globale, da scannerizzare con studi specifici (in foto due opere: “Pace nel Mondo”, acrilico e “Resurrezione di Lazzaro”, scultura) così plasticamente amalgamata con la biografia? Antonio Pizzolante oggi è uno scultore affermato nel mondo: dalla Spagna all’Austria, dalla Turchia agli Usa (sta per andare alla Biennale di Firenze). Per anni frequentò la “comune” di “Spigolizzi”, mèta di artisti e intellettuali da tutto il mondo. Le loro lezioni hanno segnato profondamente la sua avventura nell’arte. E in questa intervista svela le infinite facce del personaggio, l’artista, l’uomo e della compagna della sua vita.
Domanda: Maestro, quando incontrò Mommens?
Risposta: “Alla fine degli Anni ‘70. Frequentavo l’Accademia di Belle Arti di Lecce quando conobbi lui e la sua compagna. La prima volta che andai alla masseria ero accompagnato da un amico comune, Vittorio Lia, ebanista di Patù, artigiano che conosceva i segreti del legno e da cui ho imparato molto. Spigolizzi si trova su una collina nell’entroterra delle marine di Salve. Mi parve un luogo incontaminato, inviolato, poco conosciuto anche dalla nostra gente. Era un sabato pomeriggio di settembre, ero curioso di osservare, scrutare lo studio di un vero scultore. Il lupo Pim avvertì il suo padrone: un omone alto, dai capelli brizzolati, arruffati, i lineamenti marcati, i modi gentili e ospitali. Dietro di lui la moglie Patience in controluce appariva ieratica come una Kore greca, decisa, determinata nel suo aplomb inglese”.
D. Quanto durò quella complicità intellettuale, da affinità elettive goethiane?
R. “Più di un decennio. Si affievolì solo con la partenza, mia e della mia famiglia, nelle brumose terre della Lombardia. Ma quando tornavo d’estate a Torre Vado andavo con piacere a salutare i miei amici inglesi. Fino a quel torrido pomeriggio d’agosto, quando dopo un affabile incontro ci accompagnarono al portone della masseria e capimmo che non lo avremmo più rivisto. Pochi anni dopo, una telefonata ci informò che Patience aveva raggiunto il suo compagno nei cieli tersi e le spumose nuvole sull’altura di Spigolizzi”.
Pace nel Mondo, N. Mommsen |
D. Cosa ricorda di quei simposi alternativi quanto creativi ai Fani?
R. “Erano incontri fra amici motivati dagli stessi interessi creativi. Un salotto affollato: ricordo Umberto Palamà, Maurizio Nocera, Antonio Verri, Luigi Sergi, Vito Russo, Rosanna Renna, Mario Ricchiuto, Helmut Dirnaichner, il regista Klaus Voswinckel e la moglie Ulrike e soprattutto lo scrittore napoletano Andrea Giovene, amico comune. Ma furono in tanti a frequentarli e spesso a rimanere a cena e chiacchierare di arte, poesia, letteratura, con in mano un buon bicchiere di vino”.
D. Le confidarono mai perché scelsero il Salento per appartarsi dal mondo e perché vissero senza i confort della modernità?
R. “Dopo aver soggiornato in tanti luoghi, avevano bisogno di un punto di riferimento. Scelsero la campagna salentina perché era incontaminata e le stagioni avevano un loro ritmo. Si immersero nella sua solarità consapevoli che tanto potevano assimilare, ma soprattutto coscienti che un rapporto vero e radicato con il luogo poteva far vivere con pienezza la loro esperienza di vita. Qui Mommens riuscì a conciliare il fare e il pensare: faceva il contadino e pensava da filosofo, metteva questi due ruoli sullo stesso piano: per lui ebbero la stessa importanza”.
D. E di Patience Gray cosa ricorda?
R. “Era il colore complementare di Norman, l’unico colore. Donna di grandissimo intuito e acume di pensiero.
Il grande scrittore cosmopolita Andrea Giovene, dei duchi di Girasole, autore della <Autobiografia di Giuliano di Sansevero> (Rizzoli 1966-70), che di lei aveva molta stima, mi diceva spesso: <Caro Antonio, quella è una donna che sa leggere nel pensiero dell’interlocutore>. Proprio così: tra le tante qualità, lei aveva anche queste, oltre a chiarezza e schiettezza nel comunicare le proprie idee”.
D. Torniamo a Mommens artista, personaggio, uomo ancora da decodificare: chi è davvero?
R. “Uno scultore possente, simbolico, ancestrale, ma allo stesso tempo contemporaneo. Scultore di pietre, infinite pietre, marmo e arenarie, ma anche legno, ferro, bronzo. Era un artista con la consapevolezza di conoscere la forma fino alla sua essenza simbolica, capace di sottolinearne l’essere: nudo, essenziale, senza tempo, uomo, santo, Dea Madre. E poi era un pittore: di figure, luoghi, angeli, creature. Pittore di spazi, geometrie, sapienze, dense di pigmenti, terra, luci, ombre, oro e argenti, dosati a creare senso, alchimia, potere buono. Fu, ripeto, contadino, ma anche filosofo, un filosofo pratico che applicava il suo pensiero alla matematica e all’archeologia, l’ecologia e la politica, l’alchimia e la letteratura, la botanica e il teatro. Un artista armato d’inesauribile caparbietà creativa che sapeva raccontare in modo semplice concetti complessi”.