Dal nostro inviato Francesco Greco
VENEZIA – C’è sempre grande curiosità e interesse quando il cinema incontra la Storia, sfoglia avidamente le sue pagine per rileggere fatti, personaggi, avvenimenti. Non sembri esagerato né blasfemo l’accostamento, ma se la psicoanalisi un secolo fa ha consentito anche di ridefinire le personalità dei grandi protagonisti (da Alessandro Magno a Cesare, da Carlo Magno a Napoleone), il cinema oggi ci svela gli eventi dell’ultimo secolo usando una password polisemica (cioè includendo anche Freud).
Con Giovanni Paolo II e Gorbaciov, Lech Walesa (a fine mese avrà 70 anni) è stato un protagonista indiscusso dell’ultimo scorcio dell’altro secolo, quello “breve”, degli “ismi”. Senza di loro, che hanno rimesso in discussione gli equilibri politici usciti dal secondo conflitto mondiale e sanciti da Yalta, oggi la geopolitica sarebbe profondamente diversa.
E a una personalità così sfaccettata, solo un grande come Andrzej Wajda (87 anni) poteva accostarsi, non fosse altro che per una comune appartenenza antropologica e formazione culturale. “Lech Walesa (Men of Hope)” (l’uomo della speranza) è stata applaudito a lungo. Peccato che sia fuori concorso. Non era d’altronde la prima volta: nel 1981, lo stesso regista firmò “L’uomo di marmo” (Palma d’oro a Cannes).
Operazione riuscita. La parabola vincente dell’elettricista che si fece leader politico fondando un sindacato non di regime, Solidarnosc, ostacolato dai sovietici per paura del “contagio” (Radio Mosca chiamava i suoi compagni “caporioni”) è ben raccontata, senza enfasi, con uno stile narrativo piano quanto efficace e coinvolgente. Wajda ammette in conferenza-stampa: “La cosa più difficile è stata integrare la fiction col materiale di repertorio”.
Ma un maestro della sua caratura ci è riuscito alla grande. Così vediamo Walesa che indice uno sciopero dietro l’altro nei cantieri di Danzica, i licenziamenti, l’arresto. Wajda è abile nel rendere il momento in cui il modesto sindacalista intuisce che dalla nicchia in un cantiere della Polonia deve uscire in mare aperto e farsi protagonista del suo tempo, perché quando la Storia chiama un uomo deve rispondere.
Merito anche dell’attore scelto per il ruolo principale, Robert Wieckiewicz, che aderisce al personaggio con estremo realismo avendolo studiato a fondo. Ma anche di Maria Rosaria Omaggio, bravissima, calata nel ruolo non facile (e infatti in tanti glielo hanno sconsigliato, ma ha fatto bene a non impaurirsi) della giornalista Oriana Fallaci, che intervistò Walesa. Il regista polacco l’ha scelta perché da quando la reporter fiorentina è morta lei legge in giro i suoi testi. “La prima volta che andai in Polonia indossai la pelliccia della Fallaci”, sorride l’attrice napoletana, che per meglio calarsi nel personaggio è riuscita a trovare, sul web, le sue stesse sigarette, ora fuori mercato. Chiediamo a Wajda quale pubblico vorrebbe intercettare con questo suo film “il più difficile di quelli che ho fatto”. Risponde: “Vorrei che fossero i giovani a vederlo: ignorano questo protagonista del nostro tempo”.
VENEZIA – C’è sempre grande curiosità e interesse quando il cinema incontra la Storia, sfoglia avidamente le sue pagine per rileggere fatti, personaggi, avvenimenti. Non sembri esagerato né blasfemo l’accostamento, ma se la psicoanalisi un secolo fa ha consentito anche di ridefinire le personalità dei grandi protagonisti (da Alessandro Magno a Cesare, da Carlo Magno a Napoleone), il cinema oggi ci svela gli eventi dell’ultimo secolo usando una password polisemica (cioè includendo anche Freud).
Con Giovanni Paolo II e Gorbaciov, Lech Walesa (a fine mese avrà 70 anni) è stato un protagonista indiscusso dell’ultimo scorcio dell’altro secolo, quello “breve”, degli “ismi”. Senza di loro, che hanno rimesso in discussione gli equilibri politici usciti dal secondo conflitto mondiale e sanciti da Yalta, oggi la geopolitica sarebbe profondamente diversa.
E a una personalità così sfaccettata, solo un grande come Andrzej Wajda (87 anni) poteva accostarsi, non fosse altro che per una comune appartenenza antropologica e formazione culturale. “Lech Walesa (Men of Hope)” (l’uomo della speranza) è stata applaudito a lungo. Peccato che sia fuori concorso. Non era d’altronde la prima volta: nel 1981, lo stesso regista firmò “L’uomo di marmo” (Palma d’oro a Cannes).
Operazione riuscita. La parabola vincente dell’elettricista che si fece leader politico fondando un sindacato non di regime, Solidarnosc, ostacolato dai sovietici per paura del “contagio” (Radio Mosca chiamava i suoi compagni “caporioni”) è ben raccontata, senza enfasi, con uno stile narrativo piano quanto efficace e coinvolgente. Wajda ammette in conferenza-stampa: “La cosa più difficile è stata integrare la fiction col materiale di repertorio”.
Ma un maestro della sua caratura ci è riuscito alla grande. Così vediamo Walesa che indice uno sciopero dietro l’altro nei cantieri di Danzica, i licenziamenti, l’arresto. Wajda è abile nel rendere il momento in cui il modesto sindacalista intuisce che dalla nicchia in un cantiere della Polonia deve uscire in mare aperto e farsi protagonista del suo tempo, perché quando la Storia chiama un uomo deve rispondere.
Merito anche dell’attore scelto per il ruolo principale, Robert Wieckiewicz, che aderisce al personaggio con estremo realismo avendolo studiato a fondo. Ma anche di Maria Rosaria Omaggio, bravissima, calata nel ruolo non facile (e infatti in tanti glielo hanno sconsigliato, ma ha fatto bene a non impaurirsi) della giornalista Oriana Fallaci, che intervistò Walesa. Il regista polacco l’ha scelta perché da quando la reporter fiorentina è morta lei legge in giro i suoi testi. “La prima volta che andai in Polonia indossai la pelliccia della Fallaci”, sorride l’attrice napoletana, che per meglio calarsi nel personaggio è riuscita a trovare, sul web, le sue stesse sigarette, ora fuori mercato. Chiediamo a Wajda quale pubblico vorrebbe intercettare con questo suo film “il più difficile di quelli che ho fatto”. Risponde: “Vorrei che fossero i giovani a vederlo: ignorano questo protagonista del nostro tempo”.