di Francesco Greco - Una Thatcher per farci ingoiare una “medicina amarissima” di deregulation, privatizzazioni a go-go e spending review da macelleria sociale? Ma se pure il Duce si arrese: ”Non impossibile ma inutile” governare gli italiani “pecore anarchiche” (Longanesi), “agglomerato” più che popolo (Montanelli), in un Paese dove si “corre in aiuto del vincitore”, si leva il grido “o Roma o Orte” e “le rivoluzioni cominciano in piazza e finiscono in trattoria” perché “ci conosciamo tutti” (Flaiano). Maggie in un Paese cattolicamente vischioso, opportunista nel dna, doppia morale (“chiagni e fotti”, Bocca), vizi privati pubbliche virtù, senso dello Stato vago (solo quando gioca la Nazionale), italiani ancora da fare, sempre in credito di una rivoluzione, non marxista, ormai retrò, ma almeno liberale (all’italiana, ovvio)? Blasfemo solo pensarlo. Se il libero mercato a Londra abbassa le tariffe da noi le caste si fanno “cartello” e le tengono alte, all’italiana.
Per mestiere e frequentazioni (da 3 “magnifici lustri” nell’amata Londra da direttore della sede Rai), Antonio Caprarica (Lecce, 1951) è profondo conoscitore di storia e cultura inglese (da Shakespeare a Sir Drake, da Byron a Sting) come degli equilibri geo-politici di un pianeta connesso, dove il battito d’ali della farfalla in Amazzonia sconvolge la City. E in “Ci vorrebbe una Thatcher” (Le ricette della Lady di Ferro che potrebbero salvare l’Italia dalla crisi), Sperling & Kupfer (Collana Saggi), Milano 2012, pp. 192, € 17.00, spiega pane al pane un fenomeno complesso, barocco, ormai Storia come il thatcherismo con una password sospesa fra ironia all british e sottile provocazione intellettuale di un ex sessantottino svezzato a pane e materialismo storico e dialettico.
Trasferire il format del liberismo al ketchup del decennio (gli Ottanta, edonismo reganiano) di Maggie sarebbe una forzatura semantica. Le formule trasfigurate in archetipi, chiavi in mano, non funzionano a ogni parallelo, da “rivoluzione in un solo Paese”, copyright leninista. Avremmo trovato il Sacro Graal. Le condizioni storiche, politiche, culturali, ambientali sono riproducibili in laboratorio ma a Ucronia. Troppe differenze, condizionamenti, sensibilità .
Il liberismo dell’”amato” Adam Smith (“il mercato regola tutto” l’algoritmo fideistico) e il monetarismo di Milton Freadman e la “Scuola di Chicago”, storicamente – almeno nell’interpretazione che se n’è data - producono masse poco critiche di alieni, disperati, diseredati sospinti ai margini del “patto sociale”: la base della piramide produce ricchezza dalla cui ricaduta è ideologicamente esclusa, o quasi. Bergoglio ne coglie tutto il relativismo e invoca un’etica del Capitale, lancia anatemi contro la “mano invisibile” che concentrando la ricchezza nei caveau di pochi (lobby, oligarchie, satrapie, massonerie, cosche), cancella valori e diritti, destruttura welfare, riduce gli esseri a fantasmi importuni. Tuttavia qui gli aedi del liberismo a luci rosse non mancano: Alesina e Giavazzi, bocconiani, teorici del rigore unilaterale: poveri più poveri, ricchi, a volte assistiti dall’odiato Stato, a giocare al monopoli della finanza creativa. E lo sviluppo, la crescita, materiale e morale? Può attendere…
D’altronde, il background fa il Re nudo: la rivoluzione industriale inglese (“sudate o fochi a lavorar metalli…”) ed europea accecava bambini e cavalli nel cuore nero delle miniere. I minatori dello Yorkshire perciò non potevano esser grati alla “fregalatte” (una Thatcher accreditata pure di appeal sessuale alla basic instint: de gustibus) che li aveva “liberati” dagli “inferi” per prestarli al cabaret (“Full Monty”, Peter Cattaneo) da cui restano però lontani gli operai-Spartacus di Ken Loach.
Storia, cultura, dna, antropologia scongiurano per l’Italia un clone della “figlia del droghiere” (la Lady di Ferro, epiteto, gradito, dei sovietici), lacrime e sangue, tagli orizzontali, irrazionali, povertà diffusa per fermare il “declino”, conti in ordine per competere nel mondo glocal. Portato dallo spread, il loden del Prof. Monti è stato assimilato, un anno fa, a quel capitalismo delle ferriere, armato di accetta da “richiamo della foresta”, ma la cura stava uccidendo il paziente: con gioia ci siamo disfatti della sua agenda. A noi è toccata semmai la parodia dell’Iron Lady: da 20 anni B. tenta di farci diventare “fat cats” (gatti grassi): ma ingrassa solo lui (anche da noi si vota “con i piedi”).
Come è filologicamente una forzatura, contro il dio-mercato, schierare J. M. Keynes. Lo statalismo, le sue “visioni” non erano assolute ma modulate anche sull’economia di guerra dell’altro secolo, quando la percezione dello Stato era debole (e tra prima e seconda il ’29,Wall Street).
Nel Paese di “Satisfaction” (Stones) la baronessa di Kesteven fu spinta da una borghesia spaventata, distolta dal pasto nudo, law and order, egoista e in simbiosi con Reagan s’inventò un’interpretazione soggettiva, non dialettica, bignamina dello scozzese Smith. Il suo “capitalismo popolare” cercò di far diventare i sudditi “gatti grassi”: 10 anni di “careless whisper”. Profetici i Genesis già nel ‘73: “Selling England by the pound”. Le “utilities” (acqua energia, trasporti, telefoni, ecc.) consegnate a tedeschi, francesi, americani, spagnoli, che fanno ancora shopping frustrando l’amor patrio, l’autostima degli inglesi. Rigore col machete spruzzato dalle spezie di un neo-colonialismo straccione (Falkland). I costi del thatcherismo sono enormi: l’illanguidimento identitario e l’atomizzazione del patto sociale declinato verso l’ordine castale, la rottura dell’ascensore sociale. Ma la baronessa era andata troppo avanti perché i laburisti tornassero indietro: sarebbe stato il default.
Borsetta Asprey, “cotonatissima”, il figlio Mark sempre tra i piedi a fare affari (“ogni scarafone…”), con la sua etica luterana, quasi mormone, di qua delle Alpi sarebbe stata ospite fissa a Blob. Fu molto odiata: dai distretti industriali del Nord a Cambridge i sudditi spiacciavano adesivi sul vetro di casa: I’ m labourist. A rivendicare distanza da chi destrutturava il welfare seppellendoli sotto, facendoli tornare al “fish and chips”. La sua statua al Museo delle Cere sarà oscurata da quella di Churchill.
18 capitoli frizzanti come il jazz: dovizia di documenti, pregnante atout analitico, Caprarica è maestro nel contestualizzare, ricostruire le dinamiche, gli eventi, i protagonisti (sapide le incursioni nella Storia per dare un sottosuolo al plot), gli aneddoti in una grottesca, pittoresca osmosi con la schizofrenica Italia (da Telecom a Alitalia). Il Mack Smith griko si conferma saggista di pregio: lo stile è scabro, essenziale, rapsodico, hemingwaiano e potenzia lo sguardo crudo, impudico sul Paese che ama (e su quello di nascita) oltre le nebbie, i conformismi, l’autoreferenzialità di un grande popolo.
Per mestiere e frequentazioni (da 3 “magnifici lustri” nell’amata Londra da direttore della sede Rai), Antonio Caprarica (Lecce, 1951) è profondo conoscitore di storia e cultura inglese (da Shakespeare a Sir Drake, da Byron a Sting) come degli equilibri geo-politici di un pianeta connesso, dove il battito d’ali della farfalla in Amazzonia sconvolge la City. E in “Ci vorrebbe una Thatcher” (Le ricette della Lady di Ferro che potrebbero salvare l’Italia dalla crisi), Sperling & Kupfer (Collana Saggi), Milano 2012, pp. 192, € 17.00, spiega pane al pane un fenomeno complesso, barocco, ormai Storia come il thatcherismo con una password sospesa fra ironia all british e sottile provocazione intellettuale di un ex sessantottino svezzato a pane e materialismo storico e dialettico.
Trasferire il format del liberismo al ketchup del decennio (gli Ottanta, edonismo reganiano) di Maggie sarebbe una forzatura semantica. Le formule trasfigurate in archetipi, chiavi in mano, non funzionano a ogni parallelo, da “rivoluzione in un solo Paese”, copyright leninista. Avremmo trovato il Sacro Graal. Le condizioni storiche, politiche, culturali, ambientali sono riproducibili in laboratorio ma a Ucronia. Troppe differenze, condizionamenti, sensibilità .
Il liberismo dell’”amato” Adam Smith (“il mercato regola tutto” l’algoritmo fideistico) e il monetarismo di Milton Freadman e la “Scuola di Chicago”, storicamente – almeno nell’interpretazione che se n’è data - producono masse poco critiche di alieni, disperati, diseredati sospinti ai margini del “patto sociale”: la base della piramide produce ricchezza dalla cui ricaduta è ideologicamente esclusa, o quasi. Bergoglio ne coglie tutto il relativismo e invoca un’etica del Capitale, lancia anatemi contro la “mano invisibile” che concentrando la ricchezza nei caveau di pochi (lobby, oligarchie, satrapie, massonerie, cosche), cancella valori e diritti, destruttura welfare, riduce gli esseri a fantasmi importuni. Tuttavia qui gli aedi del liberismo a luci rosse non mancano: Alesina e Giavazzi, bocconiani, teorici del rigore unilaterale: poveri più poveri, ricchi, a volte assistiti dall’odiato Stato, a giocare al monopoli della finanza creativa. E lo sviluppo, la crescita, materiale e morale? Può attendere…
D’altronde, il background fa il Re nudo: la rivoluzione industriale inglese (“sudate o fochi a lavorar metalli…”) ed europea accecava bambini e cavalli nel cuore nero delle miniere. I minatori dello Yorkshire perciò non potevano esser grati alla “fregalatte” (una Thatcher accreditata pure di appeal sessuale alla basic instint: de gustibus) che li aveva “liberati” dagli “inferi” per prestarli al cabaret (“Full Monty”, Peter Cattaneo) da cui restano però lontani gli operai-Spartacus di Ken Loach.
Storia, cultura, dna, antropologia scongiurano per l’Italia un clone della “figlia del droghiere” (la Lady di Ferro, epiteto, gradito, dei sovietici), lacrime e sangue, tagli orizzontali, irrazionali, povertà diffusa per fermare il “declino”, conti in ordine per competere nel mondo glocal. Portato dallo spread, il loden del Prof. Monti è stato assimilato, un anno fa, a quel capitalismo delle ferriere, armato di accetta da “richiamo della foresta”, ma la cura stava uccidendo il paziente: con gioia ci siamo disfatti della sua agenda. A noi è toccata semmai la parodia dell’Iron Lady: da 20 anni B. tenta di farci diventare “fat cats” (gatti grassi): ma ingrassa solo lui (anche da noi si vota “con i piedi”).
Come è filologicamente una forzatura, contro il dio-mercato, schierare J. M. Keynes. Lo statalismo, le sue “visioni” non erano assolute ma modulate anche sull’economia di guerra dell’altro secolo, quando la percezione dello Stato era debole (e tra prima e seconda il ’29,Wall Street).
Nel Paese di “Satisfaction” (Stones) la baronessa di Kesteven fu spinta da una borghesia spaventata, distolta dal pasto nudo, law and order, egoista e in simbiosi con Reagan s’inventò un’interpretazione soggettiva, non dialettica, bignamina dello scozzese Smith. Il suo “capitalismo popolare” cercò di far diventare i sudditi “gatti grassi”: 10 anni di “careless whisper”. Profetici i Genesis già nel ‘73: “Selling England by the pound”. Le “utilities” (acqua energia, trasporti, telefoni, ecc.) consegnate a tedeschi, francesi, americani, spagnoli, che fanno ancora shopping frustrando l’amor patrio, l’autostima degli inglesi. Rigore col machete spruzzato dalle spezie di un neo-colonialismo straccione (Falkland). I costi del thatcherismo sono enormi: l’illanguidimento identitario e l’atomizzazione del patto sociale declinato verso l’ordine castale, la rottura dell’ascensore sociale. Ma la baronessa era andata troppo avanti perché i laburisti tornassero indietro: sarebbe stato il default.
Borsetta Asprey, “cotonatissima”, il figlio Mark sempre tra i piedi a fare affari (“ogni scarafone…”), con la sua etica luterana, quasi mormone, di qua delle Alpi sarebbe stata ospite fissa a Blob. Fu molto odiata: dai distretti industriali del Nord a Cambridge i sudditi spiacciavano adesivi sul vetro di casa: I’ m labourist. A rivendicare distanza da chi destrutturava il welfare seppellendoli sotto, facendoli tornare al “fish and chips”. La sua statua al Museo delle Cere sarà oscurata da quella di Churchill.
18 capitoli frizzanti come il jazz: dovizia di documenti, pregnante atout analitico, Caprarica è maestro nel contestualizzare, ricostruire le dinamiche, gli eventi, i protagonisti (sapide le incursioni nella Storia per dare un sottosuolo al plot), gli aneddoti in una grottesca, pittoresca osmosi con la schizofrenica Italia (da Telecom a Alitalia). Il Mack Smith griko si conferma saggista di pregio: lo stile è scabro, essenziale, rapsodico, hemingwaiano e potenzia lo sguardo crudo, impudico sul Paese che ama (e su quello di nascita) oltre le nebbie, i conformismi, l’autoreferenzialità di un grande popolo.