Cioran, “Lettere al culmine della disperazione”

di Francesco Greco - Il senso del tragico, della disperazione, l’esistenza vissuta come un peso, una condanna. Dio cercato e magari accidentalmente trovato, per accorgersi quanto sia indifferente al dramma dell’uomo, se non artefice della sua infinita tragedia. Il crepuscolo di ogni illusione non appena prende corpo, anche vagamente, la condanna alla solitudine, al lacerante silenzio interiore rifiutando l’opzione dell’indecente pantomima del gioco delle finzioni, con l’idea della morte sempre presente, la depressione, il desiderio di chiamarsi fuori, “l’agonia della civiltà”.
   La speculazione filosofica del rumeno Emile A. Cioran (1911-1995), sviluppata in una parabola durata un secolo, il pensiero dettato da un ispido esistenzialismo, ossessivo, sono in nuce già negli anni giovanili e, nella fattispecie, nelle lettere agli amici e sodali dell’associazione “Criterion” negli anni fra la prima e la seconda guerra. Un carteggio intimo, intellettuale, politico, insofferente e doloroso, che svela sino in fondo la personalità di uno dei più grandi pensatori del XX secolo.
   “Lettere al culmine della disperazione” (1930-1934), Mimesis, Milano-Udine (Collana “Volti” diretta da Giuseppe Bianco, Damiano Cantone, Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio), pp. 98, € 10.00, a cura di Giovanni Rotiroti, traduzione di Marisa Salzillo, postfazione di Antonio De Gennaro è un libro utile a capire ulteriormente le interfacce della barocca personalità del grande rumeno che si esiliò prima a Berlino dove vide l’ascesa di Hitler e dopo la tragedia provocata dal nazismo a Parigi. “Dovrebbero essere pubblicate come un libricino di versi”, esclamò “ridendo fino alle lacrime” ricorda Ion Vartic nel 1991 quando gli dissero che erano state trovate le 12 lettere scritte all’amico d’infanzia Bucur Ţincu fra il 1930 e il 1934 in cui parla degli “anni dell’università, il freddo della casa dello studente, il rifugio nelle biblioteche riscaldate di Bucarest, il tentativo di sfuggire la melanconia…”.
   A “Criterion” aderirono le migliori energie intellettuali del Paese, che segneranno il loro tempo, spingendosi oltre: da Eugen Ionesco (teatro dell’assurdo, poeta narratore, saggista, traduttore, pittore) a Mircea Eliade (storico delle religioni) e Constantin Noica (il più importante filosofo del secondo Novecento rumeno). Nei simposi discutono di quelli che chiamano “idoli”: Freud, Gide, Gandhi, Chaplin, Greta Garbo, Valéry, Bergson, finanche Mussolini che ha preso il potere da pochi anni.
   Le lettere partono da Sibiu, deliziosa cittadina in Transilvania che ha comunque biblioteche ben fornite: il filosofo non può permettersi di stare nella capitale. Il mondo accademico è occupato dalla generazione precedente e neanche le scuole offrono un lavoro decoroso. E sono scritte forse “in preda a una disperazione amorosa o a una infezione psichica…”.  
   Il suo primo libro, “Al culmine della disperazione”, è vicino al Premio della Fondazione Reale. Ma la Romania a Cioran va stretta (sta per essere travolta dal nazismo): soffre l’angustia dei suoi orizzonti, vuole sondare il pensiero europeo direttamente, senza suggerlo di riflesso. Con una borsa di studio inaspettata della Fondazione Humbdolt parte per Berlino dove, confida ai sodali di Bucarest, studia il buddismo e ascolta musica classica per non “lasciarsi intossicare o contaminare dall’hitlerismo”.
   E tuttavia ne subisce la “fascinazione alienante”, “la trance ipnotica” (Rotiroti), “Se un giorno la descrivessi minuziosamente, quale l’ho vissuta, mi rinchiuderebbero in un manicomio…”, il nazismo prometteva “un nuovo stile di vita” e alimenta la sua fame di irrazionale e di astrazione: “I suoi discorsi – Cioran parla ovviamente di Hitler - sono pervasi di un pathos e di una frenesia che solo le visioni di uno spirito profetico possono toccare”. Per poi ritrarsi in seguito intuendo l’inevitabile catastrofe dietro la suggestione dell’apparato propagandistico che lo ha travolto, “quel soggiorno… è stato l’apice negativo della mia vita”. Forse perché, come scriveva il 22 dicembre 1930 da Sibiu a Bucur Ţincu: “Alla mia età pochi sanno cosa significano la malattia e il dolore”, aggiungendo nel 1931, dopo il 10 novembre, stesso destinatario: “Se la malattia e la morte sono comprensibili, e alla fine giustificabili, la miseria sembra far parte del campo dell’incomprensibile”.
   Come quest’affermazione, sempre da Sibiu, 2 luglio 1934, sempre a Ţincu: “Non è solo la democrazia che è insensata, ma tutti i sistemi politici e sociali sono ugualmente inadeguati”. E la politica? Una “immensa porcheria”. E aggiunge: “Nello sguardo di una statua egizia c’è molto più contenuto filosofico che in tutto il dibattito dell’uomo moderno sulle grandi città, insieme a tutti i problemi finanziari, economici e politici che ne derivano”.
   Il Cioran della maturità parigina non farà altro che speculare su queste essenze materiali quanto metafisiche. Sino alla fine, alla “disperazione” che tocca lo zenith in un Occidente in cui all’agonia della civiltà è seguito il suo funerale. Il grande rumeno non ha fatto altro che farci cogliere il suo vuoto spasmodico, la necrosi ideale, respirare il fetore.

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