"La vita invisibile" nel Portogallo inquieto
dal nostro inviato Francesco Greco.
ROMA - Scogliere ripide, mare di cristalli luccicanti, un veliero bianco scivola sulle onde: son le immagini oniriche dei super8 girati in gioventù da Antonio. Che l'amico Hugo vede e rivede cercando una password per entrare nella sua vita, i sogni in frantumi, le speranze abortite. Antonio è gravemente malato, deve subire una seconda operazione chirurgica, forse non ce la farà...
E' l'incipit di "A vida invisivel", del portoghese Vitor Goncalves (Isole Azzorre, 1951), in concorso all'ottava edizione del Festival del Cinema di Roma. Una favola amara sul tempo che scorre, "panta rei" e sul senso della vita e della morte, il peso della malattia improvvisa, il valore dell'amicizia, il dovere delle responsabilità verso se stessi innanzitutto e poi verso la comunità, in un Portogallo inquieto, sospeso fra un passato che non passa e un futuro denso di interrogativi, mentre la vita fugge come sabbia fra le dita e si va su e giù in un palazzo di uffici che pare una citazione del castello kafkiano. In una Lisbona fotografata benissimo, dove il cielo è sempre livido, le nuvole gravide di pioggia e di freddo e i lavori della piazza vanno avanti a fatica.
La chiave del film è psicanalitica, allegorie e metafore sparse qua e là nel racconto. Antonio e Hugo sono la borghesia del Paese, tormentata, ferma nel guado, rinchiusa in se stessa, in crisi di identità, incapace di decifrare il proprio tempo, di darsi un orizzonte. Viceversa, la classe operaia sa qual è il suo compito storico: lavorare per il bene comune, produrre ricchezza, contribuire all'avanzamento della civiltà. E infatti alla fine la piazza risplenderà, rimessa a nuovo. Nel frattempo Antonio è in clinica, per un intervento che si annuncia difficile. Hugo pensa se sia il caso di andare a trovarlo, di stare un pò con l'amico, immerso in una solitudine sconfinata, claustrofobica, nella vecchia casa avita abitata dai fantasmi della sua famiglia: una quotidianità fatta di forni a microonde, piatti sporchi e tv spazzatura.
Da cui cerca di scuoterlo Adriana, che ha lasciato a metà Architettura per fare la hostess che fa base ad Amsterdam, ma quando fa scalo a Lisbona pensa a un futuro con Hugo. Intanto va avanti l'autoanalisi spietata con se stesso ("ho fatto cose sbagliate", "e se un giorno non mi ricordassi più di Antonio?", "in questa casa è come se non ci fossi mai stato, non fossi mai esistito"), il tempo dei bilanci ispidi, delle cose che non quadrano, del proiettarsi in avanti, ridiscutersi, coscienti che "la vita è un soffio" (Federico di Svevia) e che non ha senso ripensare al passato: è il segno che non si sa progettare il domani.
Pochi applausi di cortesia del pubblico. Ma a noi il film è piaciuto per quel tormento insonne espresso così bene dagli interpreti e per la mano ferma del regista nel raccontare una parabola aspra che non è solo del Portogallo ma dell'uomo del nostro tempo chiuso in un labirinto minoico dentro e fuori di sé.
ROMA - Scogliere ripide, mare di cristalli luccicanti, un veliero bianco scivola sulle onde: son le immagini oniriche dei super8 girati in gioventù da Antonio. Che l'amico Hugo vede e rivede cercando una password per entrare nella sua vita, i sogni in frantumi, le speranze abortite. Antonio è gravemente malato, deve subire una seconda operazione chirurgica, forse non ce la farà...
E' l'incipit di "A vida invisivel", del portoghese Vitor Goncalves (Isole Azzorre, 1951), in concorso all'ottava edizione del Festival del Cinema di Roma. Una favola amara sul tempo che scorre, "panta rei" e sul senso della vita e della morte, il peso della malattia improvvisa, il valore dell'amicizia, il dovere delle responsabilità verso se stessi innanzitutto e poi verso la comunità, in un Portogallo inquieto, sospeso fra un passato che non passa e un futuro denso di interrogativi, mentre la vita fugge come sabbia fra le dita e si va su e giù in un palazzo di uffici che pare una citazione del castello kafkiano. In una Lisbona fotografata benissimo, dove il cielo è sempre livido, le nuvole gravide di pioggia e di freddo e i lavori della piazza vanno avanti a fatica.
La chiave del film è psicanalitica, allegorie e metafore sparse qua e là nel racconto. Antonio e Hugo sono la borghesia del Paese, tormentata, ferma nel guado, rinchiusa in se stessa, in crisi di identità, incapace di decifrare il proprio tempo, di darsi un orizzonte. Viceversa, la classe operaia sa qual è il suo compito storico: lavorare per il bene comune, produrre ricchezza, contribuire all'avanzamento della civiltà. E infatti alla fine la piazza risplenderà, rimessa a nuovo. Nel frattempo Antonio è in clinica, per un intervento che si annuncia difficile. Hugo pensa se sia il caso di andare a trovarlo, di stare un pò con l'amico, immerso in una solitudine sconfinata, claustrofobica, nella vecchia casa avita abitata dai fantasmi della sua famiglia: una quotidianità fatta di forni a microonde, piatti sporchi e tv spazzatura.
Da cui cerca di scuoterlo Adriana, che ha lasciato a metà Architettura per fare la hostess che fa base ad Amsterdam, ma quando fa scalo a Lisbona pensa a un futuro con Hugo. Intanto va avanti l'autoanalisi spietata con se stesso ("ho fatto cose sbagliate", "e se un giorno non mi ricordassi più di Antonio?", "in questa casa è come se non ci fossi mai stato, non fossi mai esistito"), il tempo dei bilanci ispidi, delle cose che non quadrano, del proiettarsi in avanti, ridiscutersi, coscienti che "la vita è un soffio" (Federico di Svevia) e che non ha senso ripensare al passato: è il segno che non si sa progettare il domani.
Pochi applausi di cortesia del pubblico. Ma a noi il film è piaciuto per quel tormento insonne espresso così bene dagli interpreti e per la mano ferma del regista nel raccontare una parabola aspra che non è solo del Portogallo ma dell'uomo del nostro tempo chiuso in un labirinto minoico dentro e fuori di sé.