Storia di Ginefra, terra e anima del Sud

di Francesco Greco.
Ginefra Terrisi è una donna del nostro tempo: inquieta, barocca, indipendente, con una sua visione del mondo e della vita. In fuga da Napoli dopo il matrimonio con Manlio che s’è spento quasi subito confinandola in una solitudine lacerata, senza eco, su cui aveva molto investito e per il quale aveva abbandonato ogni velleità artistica (è una pittrice in carriera), si rifugia nella casa avita a due passi dal mare (di Gallipoli) dov’è cresciuta e dove tenta di elaborare un altro lutto: la scomparsa della madre Diletta, vinta dal cancro, donna forte, “bella, inesauribilmente vitale”, pudica, incapace di esprimere i sentimenti (“un sol gesto d’affetto o di una parola amorevole…”, “frugava fra i ricordi ma non vi trovava una sola carezza di sua madre…”), che nasconde un segreto.

   Fra vecchi mobili e foto scolorite dal tempo, sospesa in una dimensione fra il passato che riemerge come un magma denso di mosto e il presente oscuro, da decifrare, sul filo della memoria insonne che ripercorre i “cunti” mille volte ascoltati, comincia un’analisi introspettiva che procede su un doppio livello: ricostruisce la storia della sua famiglia negli ultimi due secoli (dai duchi de Ferraris al tempo dell’hashtag) e tenta di ricomporre il puzzle della sua vita, squadernato dallo scirocco, per ridarne un senso, riprendere i fili interrotti, recuperare la password per rimodularsi e proseguire su un orizzonte colmo di quella luce violenta che inonda il Sud che svela implacabile ciò che si agita nella profondità dell’animo: anche, soprattutto il rimosso.
   Bell’esordio nella narrativa di Annalaura Giannelli, pugliese (è nata a Brindisi da una famiglia di Parabita, nel Leccese, vive a Bari, fa l’avvocato) con “di terra e d’anima”, Mario Adda editore, Bari 2013, pp. 148, € 12.00. Fra ispidi quanto sterili sperimentalismi e romanzi di maniera, finalmente una scrittrice che si caratterizza per la fluidità del narrare, uno stile asciutto, essenziale (riecheggia uno script per il cinema, inclusa la complicità col vicino Giuliano, un medico portatore pure lui di un segreto…), padroneggia bene la storia, sbozza la psicologia dei personaggi e il contesto in cui li cala, tanto da far intuire un’osmosi pregna di ontologia fra il loro stato d’animo e il paesaggio dove si muovono (gli ulivi secolari, i muretti di pietre a secco, il mare dai colori cangianti), dal forno dell’altro secolo dove zia Priscilla (“la Pàccia”) scopre le delizie dell’amore carnale (ma non riconoscerà il figlio nell’uomo “con gli occhi neri e l’accento settentrionale”) al magazzino di granaglie del nonno, Sasà Terrisi: oggi diremmo self-made-man (uomo che s’è fatto da solo), partito vincendo a carte 4 soldi, a Natale del ‘37.

   Donne dunque protagoniste. La grande forza dialettica del romanzo è nell’evocare, con pennellate sicure, espressioniste, atmosfere e appartenenze etniche che portano in superficie le nobili radici di una terra con una pietas dal passo ora crudo ora poetico, come nel delineare gli archetipi sociologici (la rigida sedimentazione classista: i nobili, il terzo stato, la piccola borghesia; il fornaio che ha sedotto zia Priscilla è confinato al Nord da don Federico de Ferraris) e psicologici (il traboccare impetuoso delle passioni e degli istinti) nel Sud sensuale e magico dell’altro secolo. Sasà è il format dell’imprenditore che comincia da zero e si fa una posizione, salendo sull’ascensore sociale con alcuni step. Adele la donna del Sud che rimasta vedova giovanissima (dopo aver sopportato i tradimenti in nome dell’unità della famiglia) non si perde d’animo, si rimbocca le maniche e va avanti con coraggio crescendo le due figlie, Elisa e Diletta, vivendo con dignità nel rispetto di se stessa. Non mancano i nobili – il Sud, dal Salento alle Calabrie, dalla Sicilia alla Campania, ne era colmo - che si giocano il patrimonio e a correre dietro alle avventure galanti. Né le bambine ribelli che, inconsciamente, rivendicano autonomia di pensiero quanto emancipazione sociale attraverso lo studio (Diletta studia Lettere Classiche a Bari, e anche suo marito, il viveur don Fefè, muore giovane: di incidente stradale) e le professioni: eroine che fanno pensare alle donne della Maraini come a quelle determinate di Cechov. Il tutto è trasfigurato in archetipi e topoi dopo secoli oggi relativizzati dalla modernità e le sue icone aggressive.    

   Il romanzo si regge sull’input naturalista-verista (fa pensare alle opere di Verga, alcuni snodi sono, afferma Annalaura Giannelli, autobiografici, e infatti la saga famigliare dei Terrisi si può sovrapporre a quella dei Malavoglia), impianto su cui però abilmente innesta elementi onirici, fiabeschi (alla Garcìa-Màrquez: Parabita come Macondo), esaltati da una prosa intimista e decisa, in cui la contaminazione del vernacolo sparso fra le pagine ha la forza di un esaltatore di sapori e di odori. E’ anche qui la sua universalità, che affolla semanticamente il romanzo di un pathos che è anche documento storico innervato di psicologia, sociologia, antropologia. Come dicono al cinema: buona la prima!