di Eliana Forcignanò -Un libro sulla ricerca di sé, sull’amore, sulla vita che si dispiega nelle sue sfaccettature più controverse, talvolta ai limiti delle possibilità di essere vissuta e del dolore umano. Volevo essere una farfalla di Michela Marzano (Mondadori, Milano) è un’opera a metà strada fra la biografia e il saggio filosofico, in grado di raccontare l’esperienza dell’anoressia da un punto di vista che non coincide con il consueto rendiconto delle volte in cui si è mangiato e vomitato, bensì con la metamorfosi di un’anima. Dalla schiavitù alla libertà .
A pochi giorni dall’incontro con l’autrice nella sede della Libreria Liberrima a Lecce, la riflessione indugia ancora su questo libro del 2011, premessa del nuovo lavoro che Utet ha di recente pubblicato con il titolo L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore e che Michela Marzano ha presentato in occasione del suo scambio con i lettori leccesi.
Ciò non vuol dire che solo chi ha vissuto una forma di sofferenza psichica in maniera eclatante sia autorizzato a parlare di amore. Più semplicemente, di amore si parla anche in Volevo essere una farfalla: dall’amor filiale all’erotismo; dalla soggiogazione cui può indurre l’amore paterno, quando divenga dispotismo, all’autonomia che si conquista nella “dipendenza dallo sguardo dell’altro”.
Solo una biografia che reca i tratti peculiari della Bildung può narrare queste realtà accompagnandole a un pensiero talvolta magmatico e sovrastante, ma mai confuso. Perché la confusione nasce quando manca il tempo di fermarsi, quando non si ha altro per la testa che correre e concorrere per il raggiungimento di mète sempre nuove, di successi che rendono felici gli altri e sprofondano, invece, nel baratro chi li consegue.
“Ora mi fermo, mangio dormo e riparto” – scrive la Marzano che, dopo aver frequentato la Normale di Pisa, è attualmente professore ordinario di Filosofia Morale e Direttore del Dipartimento di Scienze Sociali alla Sorbona di Parigi: aver raggiunto questi traguardi è stata, in larga parte, una risposta alle attese paterne – “Dovevo essere la più brava”, ma quanto costa in termini di felicità partire alla ricerca di una perfezione che non è di questo mondo? Di una perfezione imposta dall’alto come una condanna? Di una perfezione che si è amata e odiata insieme?
Costa, forse, l’ammalarsi di anoressia con buona pace di quanti sostengono che le anoressiche sono grandi manipolatrici, capaci di ricorrere al cibo come strumento di minaccia per ottenere ciò che desiderano dagli altri. In molti casi avviene esattamente il contrario: sono gli altri, i più vicini – quelli che in latino si definirebbero propinqui – a pretendere troppo dalla malcapitata ragazzina. Sono gli altri a trascurarne l’infanzia: a toglierle il diritto di avere paura, di coltivare speranze, di sognare, di desiderare.
Michela Marzano introduce il lettore nella dimensione del desiderio che è, a tutti gli effetti, un bisogno del corpo e dell’anima: il bisogno di cibo è anche desiderio di mangiare proprio come il bisogno di amore è anche desiderio di essere amati per ciò che si è.
Più volte l’autrice di Volevo essere una farfalla ribadisce che rifiutare il cibo è un modo di dire “io sono qui! Tu dove sei?” e, probabilmente, ogni tipo di sofferenza psichica – dall’ansia alla melanconia – è un modo per chiedere aiuto all’altro, per esprimere il desiderio di essere amati avvertito tuttavia come una colpa, perché qualcuno, sin dalla più tenera età , ha insegnato che desiderare è una colpa, che si deve solo obbedire, tentando di calpestare così il nucleo, l’essenza umana presente in ciascuno per lasciare soltanto la parte automatica a cortocircuitare con il mondo esterno. Fino al momento in cui, per continuare la metafora, i fili dell’automa si bruciano, non lubrificati dal balsamo dell’amore.
Torna alla mente una massima di Terenzio: Homo sum…, “Sono un uomo e nulla di umano mi è estraneo”. Non ci sono estranei il timore e la disperazione, come l’amore e il desiderio. Michela, fin da piccola, è vittima di quella che lei stessa – citando Bateson – definisce un “doppio legame” con il padre: questi la vorrebbe autonoma e, nello stesso tempo, obbediente alla sua dispotica volontà . Crescere per lei è inizialmente una condanna: non la libera dall’oppressione paterna, dall’incubo del sentirsi dire “Se lo fai sbagli”, ma la avviluppa sempre di più nell’ossessione di non essere perfetta, nel bisogno di trattenere gli altri anche quando vogliono andarsene per dimostrare a se stessa la sua capacità di non deludere nessuno.
Accade con Alessandro, una storia d’amore che la induce a tentare il suicidio e causa il ricovero in un reparto di psichiatria: all’autrice occorre molto tempo per imparare che le “gabbie d’oro” – un’altra citazione, questa volta da Hilde Bruch – sono destinate a crollare. La persona non è fatta per stare in gabbia e prima o poi la ribellione esplode inesorabile – o implode come nel caso dell’anoressia: un’implosione, un morire dentro per non gridare la propria rabbia che potrebbe spaventare gli altri, che potrebbe farci credere meno perfetti di quanto ci sforziamo di sembrare, ma la rabbia trattenuta corrode i fili del famoso automa rivolgendosi all’interno con esiti distruttivi.
Michela Marzano sperimenta la corrosiva sensazione del mangia-e-vomita: lo dice fra le righe, forse perché non risulti una larvata esortazione alle adolescenti. Parla di “pieno e vuoto”: pieno – si potrebbe immaginare – come quando la porta è chiusa e la casa è piena di gente che ci rende felici; vuoto, come quando la porta è aperta e non rimane più nessuno ad attenderci. Eppure, il segreto, mirabilmente svelato in Volevo essere una farfalla, è proprio quello di lasciare aperta la porta riempiendosi di sé, nell’attesa che qualcuno entri.
Ciò non vuol dire egoismo, né è il banale gioco della volpe con l’uva, ma è imparare la bellezza di diventare autonomi riconoscendo il bisogno – e il desiderio – dell’altro da sé. È imparare a far pace con se stessi senza intermediari, ma accettando l’aiuto che può venire da un’altra persona, anche se non sarà mai l’aiuto che vogliamo, perché l’altro – scrive Michela Marzano – non è il nostro specchio. È imparare ad amare nella consapevolezza che il guado si attraversa ugualmente da soli e che l’altro può accompagnarci, tuttavia non è obbligato a vincere le sue paure per coprire le nostre.
“Ci ho messo quasi quarant’anni per imparare… – conclude spesso le sue riflessioni la Marzano, senza mai concludere veramente, perché niente s’impara in un giorno e Socrate insegna che la verità non può essere contenuta in un libro, per quanto esso sia prezioso e inesauribile. Ognuno è chiamato a cercare la propria strada, anche se in una società -pendolino come la nostra, si chiede sempre alla persona di trovare, mai di cercare, perché la ricerca, tranne quella meramente scientifica, è vista dai più come un perder tempo.
Oggi Michela Marzano continua a lavorare e scrivere sul corpo: non è esente da ansie e paure, come tutti, ma ha imparato a sorridere, è diventata ciò che è, come direbbe Nietzsche “che queste cose le capiva bene”.
A pochi giorni dall’incontro con l’autrice nella sede della Libreria Liberrima a Lecce, la riflessione indugia ancora su questo libro del 2011, premessa del nuovo lavoro che Utet ha di recente pubblicato con il titolo L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore e che Michela Marzano ha presentato in occasione del suo scambio con i lettori leccesi.
Ciò non vuol dire che solo chi ha vissuto una forma di sofferenza psichica in maniera eclatante sia autorizzato a parlare di amore. Più semplicemente, di amore si parla anche in Volevo essere una farfalla: dall’amor filiale all’erotismo; dalla soggiogazione cui può indurre l’amore paterno, quando divenga dispotismo, all’autonomia che si conquista nella “dipendenza dallo sguardo dell’altro”.
Solo una biografia che reca i tratti peculiari della Bildung può narrare queste realtà accompagnandole a un pensiero talvolta magmatico e sovrastante, ma mai confuso. Perché la confusione nasce quando manca il tempo di fermarsi, quando non si ha altro per la testa che correre e concorrere per il raggiungimento di mète sempre nuove, di successi che rendono felici gli altri e sprofondano, invece, nel baratro chi li consegue.
“Ora mi fermo, mangio dormo e riparto” – scrive la Marzano che, dopo aver frequentato la Normale di Pisa, è attualmente professore ordinario di Filosofia Morale e Direttore del Dipartimento di Scienze Sociali alla Sorbona di Parigi: aver raggiunto questi traguardi è stata, in larga parte, una risposta alle attese paterne – “Dovevo essere la più brava”, ma quanto costa in termini di felicità partire alla ricerca di una perfezione che non è di questo mondo? Di una perfezione imposta dall’alto come una condanna? Di una perfezione che si è amata e odiata insieme?
Costa, forse, l’ammalarsi di anoressia con buona pace di quanti sostengono che le anoressiche sono grandi manipolatrici, capaci di ricorrere al cibo come strumento di minaccia per ottenere ciò che desiderano dagli altri. In molti casi avviene esattamente il contrario: sono gli altri, i più vicini – quelli che in latino si definirebbero propinqui – a pretendere troppo dalla malcapitata ragazzina. Sono gli altri a trascurarne l’infanzia: a toglierle il diritto di avere paura, di coltivare speranze, di sognare, di desiderare.
Michela Marzano introduce il lettore nella dimensione del desiderio che è, a tutti gli effetti, un bisogno del corpo e dell’anima: il bisogno di cibo è anche desiderio di mangiare proprio come il bisogno di amore è anche desiderio di essere amati per ciò che si è.
Michela Marzano |
Torna alla mente una massima di Terenzio: Homo sum…, “Sono un uomo e nulla di umano mi è estraneo”. Non ci sono estranei il timore e la disperazione, come l’amore e il desiderio. Michela, fin da piccola, è vittima di quella che lei stessa – citando Bateson – definisce un “doppio legame” con il padre: questi la vorrebbe autonoma e, nello stesso tempo, obbediente alla sua dispotica volontà . Crescere per lei è inizialmente una condanna: non la libera dall’oppressione paterna, dall’incubo del sentirsi dire “Se lo fai sbagli”, ma la avviluppa sempre di più nell’ossessione di non essere perfetta, nel bisogno di trattenere gli altri anche quando vogliono andarsene per dimostrare a se stessa la sua capacità di non deludere nessuno.
Accade con Alessandro, una storia d’amore che la induce a tentare il suicidio e causa il ricovero in un reparto di psichiatria: all’autrice occorre molto tempo per imparare che le “gabbie d’oro” – un’altra citazione, questa volta da Hilde Bruch – sono destinate a crollare. La persona non è fatta per stare in gabbia e prima o poi la ribellione esplode inesorabile – o implode come nel caso dell’anoressia: un’implosione, un morire dentro per non gridare la propria rabbia che potrebbe spaventare gli altri, che potrebbe farci credere meno perfetti di quanto ci sforziamo di sembrare, ma la rabbia trattenuta corrode i fili del famoso automa rivolgendosi all’interno con esiti distruttivi.
Michela Marzano sperimenta la corrosiva sensazione del mangia-e-vomita: lo dice fra le righe, forse perché non risulti una larvata esortazione alle adolescenti. Parla di “pieno e vuoto”: pieno – si potrebbe immaginare – come quando la porta è chiusa e la casa è piena di gente che ci rende felici; vuoto, come quando la porta è aperta e non rimane più nessuno ad attenderci. Eppure, il segreto, mirabilmente svelato in Volevo essere una farfalla, è proprio quello di lasciare aperta la porta riempiendosi di sé, nell’attesa che qualcuno entri.
Ciò non vuol dire egoismo, né è il banale gioco della volpe con l’uva, ma è imparare la bellezza di diventare autonomi riconoscendo il bisogno – e il desiderio – dell’altro da sé. È imparare a far pace con se stessi senza intermediari, ma accettando l’aiuto che può venire da un’altra persona, anche se non sarà mai l’aiuto che vogliamo, perché l’altro – scrive Michela Marzano – non è il nostro specchio. È imparare ad amare nella consapevolezza che il guado si attraversa ugualmente da soli e che l’altro può accompagnarci, tuttavia non è obbligato a vincere le sue paure per coprire le nostre.
“Ci ho messo quasi quarant’anni per imparare… – conclude spesso le sue riflessioni la Marzano, senza mai concludere veramente, perché niente s’impara in un giorno e Socrate insegna che la verità non può essere contenuta in un libro, per quanto esso sia prezioso e inesauribile. Ognuno è chiamato a cercare la propria strada, anche se in una società -pendolino come la nostra, si chiede sempre alla persona di trovare, mai di cercare, perché la ricerca, tranne quella meramente scientifica, è vista dai più come un perder tempo.
Oggi Michela Marzano continua a lavorare e scrivere sul corpo: non è esente da ansie e paure, come tutti, ma ha imparato a sorridere, è diventata ciò che è, come direbbe Nietzsche “che queste cose le capiva bene”.