di Francesco Greco.
GAGLIANO (Le) – Il pm palermitano Nino Di Matteo? “Farà la fine di Falcone”. Barbara Berlusconi? “Potentosa”. Berlusconi? “Va a ‘cafuddare’ all’estero”. Andreotti? “Uno statista”. Non si può dire che manchi di efficacia e lucidità Totò Riina in veste di corsivista politico intercettato nel carcere di massima sicurezza di Opera (Milano) dov’è recluso col 41-bis quando nell’ora d’aria parla col boss Scu Alberto Lorusso.
Se mai il brand mafia è uscito dall’ontologica centralità, le parole del padrino di Corleone, sebbene abbia solo la 3a elementare, lo rivestono d’attualità. A Gagliano ne han fatto uno spettacolo teatrale, addirittura con due versioni: una di Alessandra Camassa, “Noi e loro” (dialogo immaginario tra Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e un’altra, “Falcone e Borsellino: storia di un dialogo”, più breve ma altrettanto pregnante, del magistrato Francesca Mariano, giudice in Corte d’Assise a Lecce (la Procura salentina vanta prestigiosi successi nella lotta alla criminalità organizzata: la Scu, vecchia e nuova, fu stroncata negli anni Novanta dal pool guidato da Cataldo Motta). Identica però la compagnia: “Recinti Teatrali-Tèmenos” di Gagliano.
Prima nazionale: Università “Kore” di Enna, poi a Palazzo Steri (Palermo)su invito del “Centro Studi Borsellino”, con l’europarlamentare Rita Borsellino. Quindi al Tribunale di Lecce in occasione del convegno di commemorazione delle stragi, a cura del Giudice Roberto Tanisi, presidente Anm leccese. Quindi al “Paisiello” di Lecce al convegno voluto da Anm e Ordine degli Avvocati, la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università del Salento, ancora con la Borsellino e il “Centro Studi Borsellino”.
In attesa dell’appuntamento a Ceglie Messapica (Brindisi), lo spettacolo è stato proposto a Gagliano (Auditorium) nella rassegna curata da Teresa Scappaviva e il “Carrozzone”.
Prima impressione: la gente si riappropria di una forma di arte antica, nata nella Grecia classica: appunto, il teatro. Strapieno ( numerosi gli abbonati) e coinvolto. Un buon segno: i tempi dell’indifferenza e del riflusso ce l’abbiamo alle spalle, si torna protagonisti (come nei '70-'80 dice qualcuno), la tv spazzatura, mantra volgare della modernità, non ha formattato tutto e ci si riprende l’agibilità politica, la passione, il destino: fine della delega al buio; la gente vuol sapere, capire, contare. Per la sociologia della politica un dato da studiare attentamente.
L’ora abbondante di spettacolo (regia Recinti Teatrali-Tèmenos) meritava il pubblico: bello e teso il testo, gli attori aderiscono ai ruoli con commossa intensità. Elevata dai contrappunti delle donne: Agnese Borsellino e Francesca Morvillo di una sensibile Liliana Putino. Inizia Agnese: “Tanta vita ho vissuto…”. E’ nauseata e insospettita dalle troppe attenzioni istituzionali (“Quirinale, Senato, Ministero dell’Interno, Banca d’Italia…”), perfino regali costosi (carità pelosa). Intuisce il motivo: preoccupati che ricordi le ultime parole del marito?
Lo spettacolo prosegue con i due magistrati palermitani (nati nel quartiere Kalza) innamorati della loro città e Nazione, incantati “a maggio, dalle gemme sugli alberi, nel soffio della primavera”, che stanno mettendo giù la requisitoria (decisive le imbeccate di Tommaso Buscetta) per il maxiprocesso (in Assise), 465 imputati. Sono chiusi nel carcere dell’Asinara (lo Stato grottescamente presenterà il conto come fosse un soggiorno in una spa), contaminando la professionalità col privato, le famiglie, la quotidianità, l’amore per la vita, il mare di Palermo. Borsellino (Marco Antonio Romano: eccezionale) doveva fare il farmacista, ereditare quella di famiglia (“un lavoro sicuro”). Entrambi decisi a stanare i poteri occulti contigui alle cosche da cui partono gli ordini di morte: non li interessa la manovalanza che li esegue, ma la sua struttura piramidale, chi “tira i fili”, pure con la denigrazione.
Intanto brutti segnali dalla politica: il pool antimafia è disfatto, le intelligenze disperse: Falcone (Mino Profico: bravissimo, è anche direttore artistico) a Roma, Borsellino a Marsala. Parlano con affetto dei colleghi caduti: Basile, Terranova, Montano, Chinnici, Cassarà, ecc: “Un uomo solo non conta nulla, è il suo pensiero che è immortale…” (Borsellino). Scopriamo che Di Matteo e Sergio Lari erano minacciati già nel 1992, 22 anni fa: magari dalle stesse menti criminali.
“So che il mio tempo sta per scadere… - prende corpo un presentimento - Ricordatevi di noi, nella luce…”, riflette amaro Borsellino al funerale di Falcone, ucciso con la moglie Francesca Morvillo (aveva gli occhi azzurri) e la scorta, il pomeriggio del 23 maggio 1992, di ritorno da Roma (“che è la bomba atomica?”, si stupisce un curioso dinanzi alla voragine di Capaci): pronunciò un duro atto d’accusa ai poteri occulti dentro lo Stato, ma anche alla società civile che ai boss chiede favori, lavoro: “Falcone è vivo!”, concluse mentre la folla gli faceva eco: “Fuori la mafia dalla chiesa!” e il cardinale Pappalardo, che celebrava le esequie, dinanzi alle strane coincidenze, lanciò inquietanti sospetti sulle connivenze nello Stato: “Chi sapeva che stava arrivando da Roma?”.
A lui toccherà due mesi dopo, il 19 luglio: stava andando in via D’Amelio a far visita alla madre. Chi lo sapeva? Le sue porole echeggiano nell’aria calda: “Nessuno può uccidere le nostre idee…”. Come le parole spezzate del giudice Antonino Caponnetto al cronista del Tg1: “E’ finito, è finito tutto… Non mi faccia dire altro…”: sanciscono lo zenith dell’epoca stragista, con l’appendice dei Georgofili: ai boss non piace il 41-bis. Costringono lo Stato a tattare e, come la Monaca di Monza, il digraziato cedette. La trattativa la legittimò ulteriormente: cosa negata alle Br. Ottenuto il risultato, la mafia cambiò pelle: basta sangue, tritolo, meglio il low profile: colletti bianchi infiltrati ovunque, fatturato alle stelle, delocalizzazione al Nord e all’estero, patti con politici che riciclano soldi sporchi e portano voti, ecc.
Ma forse il delirio di Riina la riapre. Se la decodificazione è quella che danno a Palermo, è un segnale al gruppo di fuoco di Cosa Nostra. Solo che nel frattempo la società civile - grazie anche al sacrificio di Borsellino, Falcone e tantissimi altri magistrati attaccati da 20 anni (lo ribadiscono le toghe all’apertura dell’anno giudiziario) dalla peggior politica, quella che invase la Procura di Milano – ha elevato la coscienza, per cui non sarà facile tornare al sangue, l’odore cupo del tritolo, l’indifferenza, il tengo famiglia, alla dignità svenduta, ai silenzi: il vento è cambiato e i magistrati non sono soli…
GAGLIANO (Le) – Il pm palermitano Nino Di Matteo? “Farà la fine di Falcone”. Barbara Berlusconi? “Potentosa”. Berlusconi? “Va a ‘cafuddare’ all’estero”. Andreotti? “Uno statista”. Non si può dire che manchi di efficacia e lucidità Totò Riina in veste di corsivista politico intercettato nel carcere di massima sicurezza di Opera (Milano) dov’è recluso col 41-bis quando nell’ora d’aria parla col boss Scu Alberto Lorusso.
Se mai il brand mafia è uscito dall’ontologica centralità, le parole del padrino di Corleone, sebbene abbia solo la 3a elementare, lo rivestono d’attualità. A Gagliano ne han fatto uno spettacolo teatrale, addirittura con due versioni: una di Alessandra Camassa, “Noi e loro” (dialogo immaginario tra Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e un’altra, “Falcone e Borsellino: storia di un dialogo”, più breve ma altrettanto pregnante, del magistrato Francesca Mariano, giudice in Corte d’Assise a Lecce (la Procura salentina vanta prestigiosi successi nella lotta alla criminalità organizzata: la Scu, vecchia e nuova, fu stroncata negli anni Novanta dal pool guidato da Cataldo Motta). Identica però la compagnia: “Recinti Teatrali-Tèmenos” di Gagliano.
Prima nazionale: Università “Kore” di Enna, poi a Palazzo Steri (Palermo)su invito del “Centro Studi Borsellino”, con l’europarlamentare Rita Borsellino. Quindi al Tribunale di Lecce in occasione del convegno di commemorazione delle stragi, a cura del Giudice Roberto Tanisi, presidente Anm leccese. Quindi al “Paisiello” di Lecce al convegno voluto da Anm e Ordine degli Avvocati, la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università del Salento, ancora con la Borsellino e il “Centro Studi Borsellino”.
In attesa dell’appuntamento a Ceglie Messapica (Brindisi), lo spettacolo è stato proposto a Gagliano (Auditorium) nella rassegna curata da Teresa Scappaviva e il “Carrozzone”.
Prima impressione: la gente si riappropria di una forma di arte antica, nata nella Grecia classica: appunto, il teatro. Strapieno ( numerosi gli abbonati) e coinvolto. Un buon segno: i tempi dell’indifferenza e del riflusso ce l’abbiamo alle spalle, si torna protagonisti (come nei '70-'80 dice qualcuno), la tv spazzatura, mantra volgare della modernità, non ha formattato tutto e ci si riprende l’agibilità politica, la passione, il destino: fine della delega al buio; la gente vuol sapere, capire, contare. Per la sociologia della politica un dato da studiare attentamente.
L’ora abbondante di spettacolo (regia Recinti Teatrali-Tèmenos) meritava il pubblico: bello e teso il testo, gli attori aderiscono ai ruoli con commossa intensità. Elevata dai contrappunti delle donne: Agnese Borsellino e Francesca Morvillo di una sensibile Liliana Putino. Inizia Agnese: “Tanta vita ho vissuto…”. E’ nauseata e insospettita dalle troppe attenzioni istituzionali (“Quirinale, Senato, Ministero dell’Interno, Banca d’Italia…”), perfino regali costosi (carità pelosa). Intuisce il motivo: preoccupati che ricordi le ultime parole del marito?
Lo spettacolo prosegue con i due magistrati palermitani (nati nel quartiere Kalza) innamorati della loro città e Nazione, incantati “a maggio, dalle gemme sugli alberi, nel soffio della primavera”, che stanno mettendo giù la requisitoria (decisive le imbeccate di Tommaso Buscetta) per il maxiprocesso (in Assise), 465 imputati. Sono chiusi nel carcere dell’Asinara (lo Stato grottescamente presenterà il conto come fosse un soggiorno in una spa), contaminando la professionalità col privato, le famiglie, la quotidianità, l’amore per la vita, il mare di Palermo. Borsellino (Marco Antonio Romano: eccezionale) doveva fare il farmacista, ereditare quella di famiglia (“un lavoro sicuro”). Entrambi decisi a stanare i poteri occulti contigui alle cosche da cui partono gli ordini di morte: non li interessa la manovalanza che li esegue, ma la sua struttura piramidale, chi “tira i fili”, pure con la denigrazione.
Intanto brutti segnali dalla politica: il pool antimafia è disfatto, le intelligenze disperse: Falcone (Mino Profico: bravissimo, è anche direttore artistico) a Roma, Borsellino a Marsala. Parlano con affetto dei colleghi caduti: Basile, Terranova, Montano, Chinnici, Cassarà, ecc: “Un uomo solo non conta nulla, è il suo pensiero che è immortale…” (Borsellino). Scopriamo che Di Matteo e Sergio Lari erano minacciati già nel 1992, 22 anni fa: magari dalle stesse menti criminali.
“So che il mio tempo sta per scadere… - prende corpo un presentimento - Ricordatevi di noi, nella luce…”, riflette amaro Borsellino al funerale di Falcone, ucciso con la moglie Francesca Morvillo (aveva gli occhi azzurri) e la scorta, il pomeriggio del 23 maggio 1992, di ritorno da Roma (“che è la bomba atomica?”, si stupisce un curioso dinanzi alla voragine di Capaci): pronunciò un duro atto d’accusa ai poteri occulti dentro lo Stato, ma anche alla società civile che ai boss chiede favori, lavoro: “Falcone è vivo!”, concluse mentre la folla gli faceva eco: “Fuori la mafia dalla chiesa!” e il cardinale Pappalardo, che celebrava le esequie, dinanzi alle strane coincidenze, lanciò inquietanti sospetti sulle connivenze nello Stato: “Chi sapeva che stava arrivando da Roma?”.
A lui toccherà due mesi dopo, il 19 luglio: stava andando in via D’Amelio a far visita alla madre. Chi lo sapeva? Le sue porole echeggiano nell’aria calda: “Nessuno può uccidere le nostre idee…”. Come le parole spezzate del giudice Antonino Caponnetto al cronista del Tg1: “E’ finito, è finito tutto… Non mi faccia dire altro…”: sanciscono lo zenith dell’epoca stragista, con l’appendice dei Georgofili: ai boss non piace il 41-bis. Costringono lo Stato a tattare e, come la Monaca di Monza, il digraziato cedette. La trattativa la legittimò ulteriormente: cosa negata alle Br. Ottenuto il risultato, la mafia cambiò pelle: basta sangue, tritolo, meglio il low profile: colletti bianchi infiltrati ovunque, fatturato alle stelle, delocalizzazione al Nord e all’estero, patti con politici che riciclano soldi sporchi e portano voti, ecc.
Ma forse il delirio di Riina la riapre. Se la decodificazione è quella che danno a Palermo, è un segnale al gruppo di fuoco di Cosa Nostra. Solo che nel frattempo la società civile - grazie anche al sacrificio di Borsellino, Falcone e tantissimi altri magistrati attaccati da 20 anni (lo ribadiscono le toghe all’apertura dell’anno giudiziario) dalla peggior politica, quella che invase la Procura di Milano – ha elevato la coscienza, per cui non sarà facile tornare al sangue, l’odore cupo del tritolo, l’indifferenza, il tengo famiglia, alla dignità svenduta, ai silenzi: il vento è cambiato e i magistrati non sono soli…