Dal nostro inviato (nei ristoranti) Ernest Hemingway

di Francesco Greco. Hemingway fu un uomo dedito all’eccesso. Il motivo lo si troverebbe nella sua infanzia, usando un codice psicanalitico. Troppe mogli, troppe guerre, troppo alcool, troppo cibo, troppe corride, troppe battute di caccia. Troppo di tutto. E anche troppo mito di se stesso. Che alla fine lo schiacciò: si pensò inadeguato a sostenerne il peso. Fu anche questo spiazzamento a  infilare la cartuccia nel fucile con cui mise fine alla sua parabola quell’alba tragica del 2 luglio 1961, in Florida (Key West). La quarta moglie Mary Walsh, una giornalista, acconciò un comunicato-stampa a cui non credeva lei per prima cercando di far bere al mondo la favola dell’incidente domestico pulendo uno dei suoi fucili.

   Lo scrittore del mirabile “L’uomo e il mare” (la lotta di un vecchio pescatore con un pesce gigantesco, storia vera che sentì raccontare in una taverna a Cuba), fu un formidabile bevitore (“Questo non me lo dovevi fare!”, scherzò con Fernanda Pivano quando confessò il suo essere astemia), ma anche un buongustaio dal gusto non proprio raffinato. Quando il poeta Eugenio Montale andò a intervistarlo (era il 1956) a Venezia, lo trovò stravaccato su un letto che mangiava insalata afferrandola con le mani da un enorme piatto. Se ciò può scandalizzare i benpensanti afferrati all’etichetta come polpi allo scoglio, è invece perfettamente in linea col personaggio dello scrittore militante, cacciatore, pescatore, guerriero, dai modi spicci.
 
   Con quella passione da entomologi che solo gli americani hanno, Craigh Boreth ha frugato in tutti i suoi libri e ha tirato fuori quello che c’è in quanto a locali, piatti, chef, barman e quant’altro. Nasce così “A tavola con Hemingway”, Ultra edizioni, pp. 191, € 17.50 (buona traduzione di David Santoro). Le falangi di fans di “Papa” hanno così l’opportunità di ripercorrere i posti del mondo dove visse, i ristoranti frequentati, i piatti che apprezzò.