“Come è profondo il mare”, di plastica e mercurio

di Francesco Greco - “In meno di cinquant’anni gli oggetti che utilizziamo solo per qualche attimo hanno formato un continente artificiale destinato a rimanere in natura per sempre“. “Nulla si perde di ciò che gettiamo in mare”. “Il mare è sempre più vuoto. Non c’è più pesce”. “L’Adriatico è una discarica”. “Un mare senza bellezza, una vita senza bellezza”.

   Non riuscirete a leggere fino in fondo “Come è profondo il mare”, di Nicolò Carnimeo, Chiarelettere, Milano 2014, pp. 192, € 13.60 (collana Reverse). Il titolo echeggia una cover di Dalla. Quando la scrisse a Punta Matano (Isole Tremiti), non pensava che saremmo giunti al may day, le “navi a perdere”, i metaldetector impazziti e che il prof. barese (1968) avrebbe messo giù un saggio dallo stile piano, divulgativo (con intarsi di poesia con la p maiuscola), con trattenuto furore, ma anche una luce di speranza che brilla fra le righe.

   Un perfido crampo vi aggredirà la bocca dello stomaco, un senso di smarrimento e solitudine intriso di rabbia, vuoto, disgusto, impotenza. Se riuscirete ad arrivare alla fine, la vostra scala dei valori forse sarà sconvolta, relativizzata. I surrogati e il pattume in cui siamo immersi, il volgare feticismo che intorbida la percezione del mondo e le cose saranno, come il re, nudi: forse riscoprirete l’essenzialità del vivere.  

   Carnimeo è autorevole, appassionato: viene dal giornalismo, la scuola migliore (Hemingway): insegna Diritto della navigazione alla “Aldo Moro” di Bari, è tra i fondatori di “Vedetta sul Mediterraneo”, nel cv altri libri, con Giorgio Mondadori e Longanesi. Sà che la materia trattata è delicata, soppesa le parole con “la capacità di traguardare l’orizzonte… nel suo respiro planetario, nell’analisi lucida di uno scenario reale” (Predrag Matvejević), ma tenta tuttavia di sottrarci alla depressione e, mai sia, alla rassegnazione; ci dona la speranza di poter rimediare ai nostri disastri e ritrovare la bellezza. Cosciente che ci muoviamo in un tunnel viscido, che il nostro istinto di conservazione è esile, ci mette a parte di realtà ancor più gravi poichè non legittimate: i Parlamenti cianciano di stravaganze sociologiche, paralizzati dall’ignoranza, la corruzione, omertà, complicità (giapponese per Minamata, il nostro per Priolo, Taranto, Bari: dove sono le bombe della Jhon Harvey? E Aso, Yvonne A, Barbara, Koraline, Cusky, la Cavtat?), la difesa di interessi impudici, inconfessabili. Nei tribunali si parla più di escort che di mercurio assassino che fa nascere bambini dal destino segnato, a cui rubiamo l’orizzonte, la vita, mentre all’Imu (Commissione Ambiente, Londra) il delegato brazil rimorchia la danese, il norvegese dorme, altri scarabocchiano. E meno male per le casalinghe e i pescatori, i biologi, i palombari…

   “Così stiamo bruciando il mare, / così stiamo uccidendo il mare, / così stiamo umiliando il mare, / così stiamo piegando il mare” (Dalla). Così assassiniamo nostra madre: perché la vita comincia nelle acque, dove stiamo per 9 mesi. Quando fuori c’era il nulla, lì c’era la vita.

“Abbiamo perso la consapevolezza di far parte della natura”, adottato modelli di sviluppo aggressivi, suicidi e “se non vogliamo fare la fine dei dinosauri”. Dobbiamo tornare indietro o un’altra glaciazione ci attende fra latte, spiagge e mari di plastica (7.250.000.000 tnl). Non siamo più sicuri di nulla: come svezzare i bambini, cosa deve mangiare la donna gravida, mettere nel piatto del vecchio. Tutto ciò è stato provocato dalle orride leggi del profitto, del liberismo senza regole, la finanza creativa, la mancanza di controlli, normative lacunose, diritto in ritardo: quello marittimo si spinge fino a 200 miglia dalle coste, ma Garbage Patch è nel “mare libero”, non “abbastanza profondo da contenere i rifiuti di questa società dei consumi sfrenati” (Björn Larsson). Più di internet “la plastica rappresenta il più importante fenomeno della globalizzazione”.
   In questo “mondo d’acqua, un pianeta dominato dal manto ricoprente dell’oceano…” (Rachel Carson) nel Pacifico settentrionale c’è un continente “grande quanto l’Europa, anche se sfugge a Google Earth”: ne occupa un terzo, dalla California alla Cina. E ce ne sono altri quattro (nel Pacifico, l’Oceano Indiano, due nell’Atlantico) che spargono colorati coriandoli di plastica che i pesci scambiano per plancton, finiscono nella catena alimentare, da lì nel dna.

   “Sappiamo ancora poco o nulla su come questo continente di plastica muterà le regole della vita nel mare, e la nostra (…) Nulla si perde di quel che gettiamo in mare” (la plastica è highlander: eterna e servono 3 mln e mezzo di anni perché il plutonio si plachi). Ma ci sono anche piombo, cadmio, arsenico, selenio, rame, titanio, argento, zinco, alluminio, inclusi pesticidi e mercurio, sparsi nei tre quarti delle acque del pianeta. E le “alghe aliene” che rischiano di trasformare l’ecosistema. In Algeria i pescatori tirano nelle reti il 40% di rubbish. Spuntano nuove patologie, mutazioni genetiche: “Itai Itai”, “Niigata Minamata”, “asma di Yokkaidi”, il “gatto ballante” che col “grasshopper effect” si diffondono rapidamente ovunque: mare globale.

   Non la plastica ma i pesticidi, dicembre 2009, uccisero 7 capodogli spiaggiati sul Gargano (vivono da 25 mln di anni!) in un’agonia che fece piangere chi colse la desolante metafora di quel che ci attende. 1784 bambini giapponesi dai capelli metallici sono morti per i veleni degli scarichi da produzioni industriali nelle acque e il governo ha riconosciuto alle famiglie risarcimenti che li hanno derubati della dignità. I tarantini sono avvolti dalle polveri rosse: si posano anche sulle loro tombe. In Sicilia (Augusta) la nascita di bimbi deformi è salita dall’8,9 (anni ‘50) al 29,9 (anni ‘80). Il tumore al polmone nei maschi è cresciuto di oltre 6 volte. 30 bimbi su 600 nascono deformi (apparato genitale, scheletrico, urinario, respiratorio). Senza avambraccio, dita della mano, il piede, testicoli, l’astragalo, il perone, il calcagno. Fra ’58 e ’80, per la Procura di Siracusa, la Montedison ha sversato in mare tonnellate di mercurio. Ogni anno i palombari della Marina recuperano 4000 ordigni. E le pene sono risibili: urge normativa vera.

   “E’ la sua eternità che ci affascina. Salvare il mare è salvare noi stessi e la nostra specie”.  Si riuscirà a coniugare economia e natura? A ritrovare la saggezza della balena? Torneremo ad ascoltare la sinfonia delle correnti (gyre) opera del vento? Evitare il golpe delle meduse? E’ la sfida del tempo che verrà, la lotta disperata del capitano Charles Moore per sfuggire ai tentacoli di plastica, stupido Moby Dick del nostro tempo. Carnimeo pone la prima pietra di quella che, per dumping, si spera una muraglia più grande di quella cinese.

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