di Ilaria Stefanelli - Tic tac, tic tac…corrono veloci le lancette dell’orologio che segna il tempo, in un angosciante conto alla rovescia, che separa Lecce e i salentini dall’evento del mese: l’anteprima del film del regista italo-turco Ferzan Ozpeteck con annessa conferenza stampa e festa da “mille e una notte”, con red carpet d’eccezione, presso il castello Carlo V i cui inviti, secondo i più mondani frequentatori di salotti leccesi, erano addirittura “introvabili”.
“La notte ha bruciato tutte le sue candele” scriveva Shakespeare in “Romeo e Giulietta”, ebbene, il battesimo dell’opera di Ferzan Ozpeteck è avvenuto, con tripudio di allori e con tutti gli onori nella giornata di ieri. Oggi è tempo di bilanci.
Chi si aspettava con questo film una eco lontana delle atmosfere goliardiche di “Mine vaganti” rimarrà deluso. E’ un salento diverso quello scelto a far da cornice alla pellicola. Come dichiarato dallo stesso Ferzan “Amo Lecce, è la mia città preferita dopo Istanbul e Roma, ho deciso di ambientare qui il mio film, in un contesto così speciale per me, perché volevo stare bene durante le riprese, nell’atmosfera più congeniale. Questa storia avrebbe potuto essere ambientata in qualsiasi città e per questo non ho voluto sottolineare l’appartenenza dei personaggi ai luoghi in cui è ambientata la vicenda”.
Un salento cartolina, appunto, che non racconta ma accompagna le vicende narrate come uno splendido teatro barocco a far da scenografia alla vicenda narrativa, nient’affatto scontata e per certi versi persino “scivolosa”.
“Allacciate le cinture” parla d’amore combattuto, di amicizia, di legami familiari solidi, di sogni di felicità, ma anche di malattia e di morte, il tutto seguendo la chiave simbolica alla quale il regista turco ci ha abituati attraverso le sue precedenti pellicole.
L'amore che è alchimia inspiegabile, fatto di odori e feromoni silenziosi ma ineluttabili. E che non tiene conto delle differenze sociali, culturali, di sesso e di età. Che marcia dritto verso la meta, consigliando al suo pubblico di allacciarsi le cinture di sicurezza per gestire al meglio le inevitabili turbolenze che nella vita, prima o poi, arrivano, obbligandoti a reagire e a tenere duro. Protagonisti del film, che spazia continuamente tra dramma e commedia, Elena ed Antonio, rispettivamente Kasia Smutniak e Francesco Arca, accecati da un’illogica passione improvvisa. Un colpo di fulmine ‘barbaro’ ed ‘animale’ che va oltre le enormi distanze culturali dei due, tanto da portare entrambi a tradire i rispettivi fidanzati.
13 anni dopo ci ritroviamo dinanzi ad una coppia ancora in piedi, anche se minata dai continui tradimenti di lui, dai litigi in famiglia e dalla malattia che colpisce nel profondo lei. Perché un cancro al seno investe Elena, mettendo a dura prova i sentimenti di tutti, ovvero: mamma, zia, migliore amico, figli e ovviamente lui, quell’Antonio burbero e poco loquace, ancora attratto dalla sua bellezza, anche se devastata dalla malattia.
Se fossimo in America un film simile sarebbe probabilmente nato da un romanzetto rosa di Nicholas Sparks. Ma siamo in Italia e l’idea di base è venuta a Ferzan Ozpetek, maestro di melò che tanto meritato successo ha ottenuto negli ultimi 3 lustri. Peccato che in questo caso, come avvenuto con il presto dimenticato Un giorno Perfetto, il regista turco sia pesantemente scivolato su un argomento complicato come l’amore ‘fisico’ e passionale di una coppia che parla poco, interagisce solo sessualmente e per questo si ama follemente. Al fianco di Ferzan, anche ieri in conferenza stampa, uno dei suoi sceneggiatori storici, Gianni Romoli, fedele collaboratore in Harem Suare, Le Fate Ignoranti, La finestra di fronte, il portentoso e straziante Cuore Sacro e Saturno contro.
4 mani per provare a rendere credibile l’amore impossibile tra Francesco Arca e Kasia Smutniak, colonna portante della trama che traballa costantemente sin dai primi minuti di pellicola.
In Allacciate le cinture funziona il resto, vedi i comprimari, chiamati a stemperare i toni drammatici con parti stereotipate eppure ben delineate e divertenti, ma non i due protagonisti che con passione si abbracciano nel poster ufficiale del film, che urla quasi con un tono da Liala dei giorni nostri “un grande amore non avrà mai fine“.
Un amore che sboccia all’improvviso, tramite semplici sguardi, sfiancanti silenzi e poche, pochissime parole. Le battute di Arca sono talmente limitate da non riuscire a catturare lo spettatore, se non fosse che Francesco non riesca mai a dar loro giustizia, mangiando spesso le parole per poi inquadrare il proprio personaggio con cliché maschilisti che ci auguravamo superati. Ingrassato 13 kg per interpretare l’Antonio ‘invecchiato’, l’attore toglie credibilità ad una trama già di suo ballerina, affossando inevitabilmente il salto carpiato di Ozpetek che ancora oggi difende la sua coraggiosa e tanto criticata scelta. Alle spalle dei due protagonisti, come detto, troviamo, giova ribadirlo, il ‘meglio’ dell’opera, ovvero il sorprendente Filippo Scicchitano, incredibilmente naturale nell’indossare gli abiti di un giovane omosessuale dalla lingua tagliente; un emozionante Francesco Scianna così “salentino” nei modi e nell’accento da apparire quasi un “autoctono”; la ritrovata Elena Sofia Ricci, di nuovo diretta da Ferzan dopo Mine Vaganti e in questo caso esilarante zia ‘borderline’; una profonda Carla Signoris, madre della Smutniak nonché sorella della Ricci, con cui darà vita ad interminabili e spassosi battibecchi; Luisa Ranieri, per pochi minuti in scena ma impeccabile nell’interpretare l’amante napoletana e a dir poco ‘kitsch’ di Arca; ed una bravissima Paola Minaccioni, in odore di nomination a David e Nastri perché quasi irriconoscibile nel ruolo di una malata terminale, una “Gelsomina” in chiave moderna, a ricordare, prepotentemente, il capolavoro di Fellini “La strada”.
Perché ‘un grande amore non avrà mai fine‘, per l’appunto, persino dinanzi alla trasformazione fisica di un corpo. Quello della Smutniak, in questo caso, amata “a prescindere” dall’Orso Arca, pronto a sciogliersi in una stanza d’ospedale (e con accanto un’altra paziente) dinanzi alla moglie malata e per anni tradita. Introdotto da due lunghi piani sequenza, a cui faranno seguito i tradizionali ampi movimenti della macchina da presa a cui Ozpetek ci ha sempre abitato, tecnicamente quasi ineccepibile e impreziosito da una colonna sonora a due facce, con il tema musicale che crolla nelle scene più leggere per poi decollare dinanzi ai brani con sapienza scelti dal regista, vedi la meravigliosa A mano a mano di Riccardo Cocciante, nella celebre cover di Rino Gaetano, Allacciate le cinture conferma e certifica i tanti dubbi che avevano accompagnato la sua lavorazione, legati in particolar modo alla coppia di protagonisti. Perché se la bellissima Kasia può considerare “quasi” superata la propria prova, a non convincere minimamente è l’interazione con l’altra metà della mela, Francesco, così come il modo in cui Romoli ed Ozpetek hanno costruito la loro ‘inaffondabile’ storia d’amore.
Una storia fondata essenzialmente sul nulla, flebile nella sua introspezione e in troppi casi forzata nel volersi mostrare per quello che non è, tanto da finire contro un muro a velocità sostenuta, finendo così per uscirne malconcia e dolorante. Anche se con le cinture adeguatamente allacciate.
“La notte ha bruciato tutte le sue candele” scriveva Shakespeare in “Romeo e Giulietta”, ebbene, il battesimo dell’opera di Ferzan Ozpeteck è avvenuto, con tripudio di allori e con tutti gli onori nella giornata di ieri. Oggi è tempo di bilanci.
Chi si aspettava con questo film una eco lontana delle atmosfere goliardiche di “Mine vaganti” rimarrà deluso. E’ un salento diverso quello scelto a far da cornice alla pellicola. Come dichiarato dallo stesso Ferzan “Amo Lecce, è la mia città preferita dopo Istanbul e Roma, ho deciso di ambientare qui il mio film, in un contesto così speciale per me, perché volevo stare bene durante le riprese, nell’atmosfera più congeniale. Questa storia avrebbe potuto essere ambientata in qualsiasi città e per questo non ho voluto sottolineare l’appartenenza dei personaggi ai luoghi in cui è ambientata la vicenda”.
Un salento cartolina, appunto, che non racconta ma accompagna le vicende narrate come uno splendido teatro barocco a far da scenografia alla vicenda narrativa, nient’affatto scontata e per certi versi persino “scivolosa”.
“Allacciate le cinture” parla d’amore combattuto, di amicizia, di legami familiari solidi, di sogni di felicità, ma anche di malattia e di morte, il tutto seguendo la chiave simbolica alla quale il regista turco ci ha abituati attraverso le sue precedenti pellicole.
L'amore che è alchimia inspiegabile, fatto di odori e feromoni silenziosi ma ineluttabili. E che non tiene conto delle differenze sociali, culturali, di sesso e di età. Che marcia dritto verso la meta, consigliando al suo pubblico di allacciarsi le cinture di sicurezza per gestire al meglio le inevitabili turbolenze che nella vita, prima o poi, arrivano, obbligandoti a reagire e a tenere duro. Protagonisti del film, che spazia continuamente tra dramma e commedia, Elena ed Antonio, rispettivamente Kasia Smutniak e Francesco Arca, accecati da un’illogica passione improvvisa. Un colpo di fulmine ‘barbaro’ ed ‘animale’ che va oltre le enormi distanze culturali dei due, tanto da portare entrambi a tradire i rispettivi fidanzati.
13 anni dopo ci ritroviamo dinanzi ad una coppia ancora in piedi, anche se minata dai continui tradimenti di lui, dai litigi in famiglia e dalla malattia che colpisce nel profondo lei. Perché un cancro al seno investe Elena, mettendo a dura prova i sentimenti di tutti, ovvero: mamma, zia, migliore amico, figli e ovviamente lui, quell’Antonio burbero e poco loquace, ancora attratto dalla sua bellezza, anche se devastata dalla malattia.
Se fossimo in America un film simile sarebbe probabilmente nato da un romanzetto rosa di Nicholas Sparks. Ma siamo in Italia e l’idea di base è venuta a Ferzan Ozpetek, maestro di melò che tanto meritato successo ha ottenuto negli ultimi 3 lustri. Peccato che in questo caso, come avvenuto con il presto dimenticato Un giorno Perfetto, il regista turco sia pesantemente scivolato su un argomento complicato come l’amore ‘fisico’ e passionale di una coppia che parla poco, interagisce solo sessualmente e per questo si ama follemente. Al fianco di Ferzan, anche ieri in conferenza stampa, uno dei suoi sceneggiatori storici, Gianni Romoli, fedele collaboratore in Harem Suare, Le Fate Ignoranti, La finestra di fronte, il portentoso e straziante Cuore Sacro e Saturno contro.
4 mani per provare a rendere credibile l’amore impossibile tra Francesco Arca e Kasia Smutniak, colonna portante della trama che traballa costantemente sin dai primi minuti di pellicola.
In Allacciate le cinture funziona il resto, vedi i comprimari, chiamati a stemperare i toni drammatici con parti stereotipate eppure ben delineate e divertenti, ma non i due protagonisti che con passione si abbracciano nel poster ufficiale del film, che urla quasi con un tono da Liala dei giorni nostri “un grande amore non avrà mai fine“.
Un amore che sboccia all’improvviso, tramite semplici sguardi, sfiancanti silenzi e poche, pochissime parole. Le battute di Arca sono talmente limitate da non riuscire a catturare lo spettatore, se non fosse che Francesco non riesca mai a dar loro giustizia, mangiando spesso le parole per poi inquadrare il proprio personaggio con cliché maschilisti che ci auguravamo superati. Ingrassato 13 kg per interpretare l’Antonio ‘invecchiato’, l’attore toglie credibilità ad una trama già di suo ballerina, affossando inevitabilmente il salto carpiato di Ozpetek che ancora oggi difende la sua coraggiosa e tanto criticata scelta. Alle spalle dei due protagonisti, come detto, troviamo, giova ribadirlo, il ‘meglio’ dell’opera, ovvero il sorprendente Filippo Scicchitano, incredibilmente naturale nell’indossare gli abiti di un giovane omosessuale dalla lingua tagliente; un emozionante Francesco Scianna così “salentino” nei modi e nell’accento da apparire quasi un “autoctono”; la ritrovata Elena Sofia Ricci, di nuovo diretta da Ferzan dopo Mine Vaganti e in questo caso esilarante zia ‘borderline’; una profonda Carla Signoris, madre della Smutniak nonché sorella della Ricci, con cui darà vita ad interminabili e spassosi battibecchi; Luisa Ranieri, per pochi minuti in scena ma impeccabile nell’interpretare l’amante napoletana e a dir poco ‘kitsch’ di Arca; ed una bravissima Paola Minaccioni, in odore di nomination a David e Nastri perché quasi irriconoscibile nel ruolo di una malata terminale, una “Gelsomina” in chiave moderna, a ricordare, prepotentemente, il capolavoro di Fellini “La strada”.
Perché ‘un grande amore non avrà mai fine‘, per l’appunto, persino dinanzi alla trasformazione fisica di un corpo. Quello della Smutniak, in questo caso, amata “a prescindere” dall’Orso Arca, pronto a sciogliersi in una stanza d’ospedale (e con accanto un’altra paziente) dinanzi alla moglie malata e per anni tradita. Introdotto da due lunghi piani sequenza, a cui faranno seguito i tradizionali ampi movimenti della macchina da presa a cui Ozpetek ci ha sempre abitato, tecnicamente quasi ineccepibile e impreziosito da una colonna sonora a due facce, con il tema musicale che crolla nelle scene più leggere per poi decollare dinanzi ai brani con sapienza scelti dal regista, vedi la meravigliosa A mano a mano di Riccardo Cocciante, nella celebre cover di Rino Gaetano, Allacciate le cinture conferma e certifica i tanti dubbi che avevano accompagnato la sua lavorazione, legati in particolar modo alla coppia di protagonisti. Perché se la bellissima Kasia può considerare “quasi” superata la propria prova, a non convincere minimamente è l’interazione con l’altra metà della mela, Francesco, così come il modo in cui Romoli ed Ozpetek hanno costruito la loro ‘inaffondabile’ storia d’amore.
Una storia fondata essenzialmente sul nulla, flebile nella sua introspezione e in troppi casi forzata nel volersi mostrare per quello che non è, tanto da finire contro un muro a velocità sostenuta, finendo così per uscirne malconcia e dolorante. Anche se con le cinture adeguatamente allacciate.