Patù, legno, canne, terra rossa: la bioedilizia a km 0
di Francesco Greco.
PATU’ (Le) – Alla ricerca del tempo perduto, la sua musica segreta, l’algoritmo primordiale, la riappropriazione del proprio io antropologico, della dimensione esistenziale che la violenza dei segni e delle parole intorno vuol desertificare: la sua infinita ricchezza, forza, energia. A Munte Caddini (Monte Callini) lo Jonio di smeraldo corre a sud verso Leuca e poi Otranto e l’abbraccio con l’Adriatico, il mare amico dei popoli: echi di altri mondi, divinità, epos.
Qui da qualche tempo si configurano le nuove tendenze della bioedilizia scagliate nel III Millennio dei pilates, con lo sguardo al passato, al recupero di materiali antichi, poveri ma nobili, ma agganciate solidamente alla modernità dell’android e di twitter. La filosofia di fondo è: noi apparteniamo alla terra, come appartiene un muretto a secco di pietre che dormono da millenni, un insonne ulivo secolare, un cespuglio di ginestra, le morbide orchidee selvagge. Non siamo legittimati a farne quel che vogliamo, disporne a nostro piacimento, egoismo, volgare capriccio, alterando equilibri millenari.
Così Geo si fa matrigna, a volte assassina. Un rapporto dunque intenso, ontologico, olistico: siamo parte del tutto, dentro una bolla di dolce energia cosmica che condividiamo con gli spiriti degli avi. La terra chiede rispetto, rifiuta veleni, pretende silenzio, e se li ottiene ti regala la sua anima antica e profonda, la sintonia con te stesso, il mondo animale e vegetale, l’Universo. Ti consente di cogliere il suo respiro possente, i messaggi cifrati, carsici.
Emergono così dal cuore generoso del tempo materiali a km zero (e costo esiguo), donati dal paesaggio e dall’animo dell’uomo che ha resistito all’esproprio culturale e tecniche sepolte nella memoria: il carparo delle cave vicine segnato dai funghi del tempo, la terra rossa (vòliu) usata come malta, il tetto di tegole rosse d’argilla (ìrmici), il sottotetto coibentato con “cannizzi” e terracotta: poggia su travi di legno e il pavimento è di mattoni dei dintorni.
Materiali che si offrono all’edilizia del III Millennio (quella classica sta morendo), naturale, eco e bio, senza se e senza ma. Una sfida epocale: i salentini sono un popolo di briganti, folletti, sirene, dee, baccanti, gechi. La casa di Marco Federico Gagliani, il “Terraiolo”, guarda il mare come temesse ancora l’arrivo dei Turchi a rapire innocenti fanciulle dalla pelle di luna.
E’ immersa negli ulivi scagliati al cielo come preghiere e i peri selvatici innestati a pere di San Giovanni, il rosa delicato dei “cipuddazzi” e le orchidee (un tempo si mangiavano come se l’uomo volesse rubare la bellezza alle ninfe), i crespini dai fiori giallo follia e le malve carnose e gli anemoni purpurei.
L’antico porto di Vereto (“Varitu”) è sepolto dalle onde: la scalinata messapica, il piazzale dove i mercanti fenici scambiavano le stoffe con l’olio e il vino, il pozzo dove la navi si rifornivano d’acqua, le grotte dove davanti alla luna che rende il mare di latte si nascondono gli amanti dallo sguardo febbricitante perso nella rotta delle navi. La casa del geometra che un giorno stravolse i confini della razionalità soffocante per librarsi nell’aria di favoni, diventando artista, è fatta (foto di Cosimo Negro) proprio di quei materiali estrapolati dal paesaggio, senza chimica, additivi, veleni, fetenzia imposta dalla violenza degli spot su cui si regge la contemporaneità, che a volte diventa tossica e persino mortale. La casa del Terraiolo invece respira: fresca d’estate, calda d’inverno.
Se l’è fatta da solo, tegola dopo tegola, con le grosse mani ereditate da chi da secoli si suda il pane che mangia con la famiglia. Qui accoglie i suoi amici per due chiacchiere rilassate e un bicchiere di malvasia nera, anche quello a km zero. Renè sente che il suo padrone è contento, è felice anche lui e fa le feste agitando la coda con lazzi di gioia; il gatto Raton (condannato già nel nome a fare il suo lavoro, “Cane binchiatu, cattu famacusu”) ha il pelo lucido e sorride ai forestieri, poi scappa fra gli asparagi selvatici le “sparascìne” i rovi l’asfodelo.

“Non complichiamoci la vita…”, sorride l’artista congedandoli. Una sorta di “manifesto”, un mantra per una vita su basi nuove, in armonia col proprio cuore gli altri mondi (quelli di G. Bruno e Vanini), l’Universo nato dal Big-Bang. Se è vero che l’ultima idea di architettura è stata quella del fascismo e che dopo sono venuti obbrobri architettonici squallidi e privi di anima (geometri, ingegneri, architetti degli ultimi 60-70 anni dovrebbero come minimo tornare a scuola, dietro la lavagna), parte dal Salento un messaggio subliminale, un modo di essere moderni, postmoderni, di ritrovare l’anima del tempo in sintonia con la propria e con le supernove: recuperiamo quei materiali, che l’edilizia torni all’antico, verrà nuova occupazione con i mestieri del passato. Tutto questi input saranno oggetto di un imminente convegno su bioedilizia e bioarchitettura.
