PUNTO E A CAPO / La sfida del lavoro tra flessibilità e precarietà
di Giuliano Gasparotti - Di lavoro si parla moltissimo: di quello che c'è – poco – e di quello che non c'è. 12,9% il tasso di disoccupazione, in ulteriore aumento, 3.293.000 persone, che tra i giovani, dai 15 ai 24 anni si impenna al 42,24%: una cifra impressionante mai così alta negli ultimi 35 anni. Stabile il tasso di occupazione, al 55,3% - ovvero di chi ha un lavoro rispetto alla popolazione in età lavorativa (15-65 anni), che fa intravedere una piccolissima luce in fondo ad un tunnel ancora molto lungo da attraversare se è vero che il saldo tra licenziati e nuovi assunti è sostanzialmente invariato.
In uno scenario a tinte fosche come questo viene presentato parte del Jobs act del Governo Renzi che, insieme alle misure di riduzione fiscale per i lavoratori - 85 euro mensili, ci auguriamo, estesi anche agli autonomi, è parte integrante della terapia d'urto per uscire dalla crisi economica. Interessante è stata la reazione dei sindacati, Cgil in particolare, che si è subito lanciata nell'affermare “Renzi copia le nostre proposte”. Bene. Dopo 24 ore però, la musica cambia quasi diametralmente: liberalizzati i contratti a termine fino a tre anni e con un massimo di otto rinnovi che di fatto non danno luogo a indennità, preavviso e giustificazione. Questo quanto previsto dal decreto Poletti che si affianca ad un ddl sull'introduzione del contratto unico a tutele progressive, sul quale, dopo anni di chiusura netta, pare che i sindacati siano disponibili al confronto.
Le opzioni sono due, c'è poco da girarci intorno: se si vuole mantenere la centralità del contratto a tempo indeterminato non si può non accettare una sua flessibilizzazione in uscita, altrimenti l'alternativa è estendere il ricorso a contratti a termine – ad oggi 6 contratti su 1 sono a termine e con questo decreto la cifra potrebbe raddoppiare. Pietro Ichino, padre di numerose battaglie sulla flexsecurity e sulla semplificazione delle norme sul lavoro, da anni ha cercato di abbattere il muro eretto da certa parte della Cgil a difesa dei lavoratori garantiti ovvero coloro che sono occupati e con un sistema rigido di tutele che di fatto escludono gli outsiders – chi un lavoro non riesce a trovarlo – dall'ingresso nel mercato ( ad oggi, duale) del lavoro. La tanto contestata riforma Fornero cercava proprio di andare nella direzione del superamento di questo dualismo, almeno nella bozza originaria poi stravolta dai compromessi parlamentari e sindacali.
A poche ore dalla visita di Renzi dalla Merkel, il parallelo con la forza e la competitività tedesca è inevitabile, così come la consapevolezza che i risultati di oggi sono stati ottenuti proprio grazie al superamento del conflitto ideologico sul lavoro, mediante riforme volute dall'ex Cancelliere (di sinistra) Schroder. Distinguere con chiarezza tra flessibilità e precarietà è il primo passo, dunque, per invertire la tendenza alla disoccupazione ed alla inattività con delle riforme di stampo europeo, ancora più importanti da farsi alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento. Per consentire ai giovani di non scappare all'estero - sono più di 5.000 ogni anno - occorre restituire futuro ed opportunità ad un'Italia poco produttiva e competitiva che si è bloccata da troppo tempo: che sia, come recita l'hashtag renziano per eccellenza, la volta buona?
In uno scenario a tinte fosche come questo viene presentato parte del Jobs act del Governo Renzi che, insieme alle misure di riduzione fiscale per i lavoratori - 85 euro mensili, ci auguriamo, estesi anche agli autonomi, è parte integrante della terapia d'urto per uscire dalla crisi economica. Interessante è stata la reazione dei sindacati, Cgil in particolare, che si è subito lanciata nell'affermare “Renzi copia le nostre proposte”. Bene. Dopo 24 ore però, la musica cambia quasi diametralmente: liberalizzati i contratti a termine fino a tre anni e con un massimo di otto rinnovi che di fatto non danno luogo a indennità, preavviso e giustificazione. Questo quanto previsto dal decreto Poletti che si affianca ad un ddl sull'introduzione del contratto unico a tutele progressive, sul quale, dopo anni di chiusura netta, pare che i sindacati siano disponibili al confronto.
Le opzioni sono due, c'è poco da girarci intorno: se si vuole mantenere la centralità del contratto a tempo indeterminato non si può non accettare una sua flessibilizzazione in uscita, altrimenti l'alternativa è estendere il ricorso a contratti a termine – ad oggi 6 contratti su 1 sono a termine e con questo decreto la cifra potrebbe raddoppiare. Pietro Ichino, padre di numerose battaglie sulla flexsecurity e sulla semplificazione delle norme sul lavoro, da anni ha cercato di abbattere il muro eretto da certa parte della Cgil a difesa dei lavoratori garantiti ovvero coloro che sono occupati e con un sistema rigido di tutele che di fatto escludono gli outsiders – chi un lavoro non riesce a trovarlo – dall'ingresso nel mercato ( ad oggi, duale) del lavoro. La tanto contestata riforma Fornero cercava proprio di andare nella direzione del superamento di questo dualismo, almeno nella bozza originaria poi stravolta dai compromessi parlamentari e sindacali.
A poche ore dalla visita di Renzi dalla Merkel, il parallelo con la forza e la competitività tedesca è inevitabile, così come la consapevolezza che i risultati di oggi sono stati ottenuti proprio grazie al superamento del conflitto ideologico sul lavoro, mediante riforme volute dall'ex Cancelliere (di sinistra) Schroder. Distinguere con chiarezza tra flessibilità e precarietà è il primo passo, dunque, per invertire la tendenza alla disoccupazione ed alla inattività con delle riforme di stampo europeo, ancora più importanti da farsi alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento. Per consentire ai giovani di non scappare all'estero - sono più di 5.000 ogni anno - occorre restituire futuro ed opportunità ad un'Italia poco produttiva e competitiva che si è bloccata da troppo tempo: che sia, come recita l'hashtag renziano per eccellenza, la volta buona?