di Alex Nardelli - In tanti lo ricorderanno a Sanremo o ad Amici nella metà degli anni ’90, nel momento di suo maggior successo. Dopo, per scelta personale, un lungo periodo di assenza dal palcoscenico musicale che conta. Adesso Alessandro Errico è pronto a ritornare con un nuovo brano ironico, “Il mio paese mi fa mobbing”, che parla proprio di cosa significa vivere precariamente.
In questa intervista ci racconta di come ha reagito all’esclusione da questo Sanremo e della conseguente operazione #sanremoperforza, di cosa sia per lui il mobbing, e del perché della sua scelta di richiamare proprio “Le Déserteur” di Boris Vian come tema per parlare della guerra.
D: Alessandro, che cos’è per te la musica?
R: La musica è allo stesso tempo un dono e una condanna, nel senso che è qualcosa che ti segue, che ti sta vicino, in qualche modo ti condiziona per tutta la vita. Almeno per quanto mi riguarda è un qualcosa che pure se volessi togliermi di dosso resterebbe sempre attaccata. Quindi sicuramente un dono perché lavorando e studiando si riesce anche a perfezionarsi, ma dall’altra parte è qualcosa un po’ come fosse un braccio, una gamba.
D: Quando inizia e come si svolge la tua carriera artistica?
R: Io ho fatto due Sanremo tanti anni fa in cui ho avuto un grosso successo, con un Disco d’Oro. Poi ho interrotto volontariamente questo percorso, e ho cercato di riprendermi il mio tempo. Questo significava crescere seguendo determinate esigenze. Ho fatto un disco con Gianni Maroccolo dei Marlene Kuntz, ho collaborato con Edoardo Sanguineti, il più grande poeta del ‘900, e poi adesso ho un nuovo progetto, che è un progetto solista, si può dire il terzo disco di Alessandro Errico come solista.
D: Quando hai saputo dell’esclusione da Sanremo cos’hai provato?
R: Per me la cosa è stata assolutamente pacifica. Sinceramente dopo quindici anni di silenzio a livello di mainstream è chiaro che non mi aspettavo dopo un mese che esco con un singolo di essere preso già a Sanremo. E’un diritto e un dovere di un direttore artistico quello di scegliere e selezionare il proprio cast, perché poi in fondo è il suo spettacolo, quello che gli andava bene. E poi da lì il fatto di fare un festival solo con canzoni d’amore, questo è un altro paio di maniche.
D: Come ti è venuta in mente l’operazione #sanremoperforza?
R: Perché ho letto delle interviste, i primi feedback dei giornalisti che ascoltavano le canzoni e dicevano “Caspita, ma tutte le canzoni parlano d’amore, come mai?”. Mi sono detto: caspita, nel 2014, in una condizione così complicata di questo paese, decidere di fare di Sanremo una sorta di zona franca, come se la musica non dovesse impicciarsi della realtà . Questa cosa mi ha dato proprio i brividi, ho detto bisogna replicare, bisogna fare qualcosa, non bisogna accettarla, io come musicista, come scrittore, mi sono sentito coinvolto. Però non volevo fare il solito muro contro muro, il solito controfestival di tutti gli anni. Ho cercato con l’ironia di aggirare l’ostacolo, di non andare al muro contro muro, ma allo stesso tempo di portare a Sanremo la realtà che era stata tenuta fuori.
D: Parlaci del brano “Il mio paese mi fa mobbing”.
R: E’una fotografia, un’istantanea. Io in questi quindici anni non ho campato d’aria, ho fatto la vita che avrei dovuto fare, questo ha significato anche sperimentare sulla mia pelle quella cosa che continuiamo a ostinarci a chiamare crisi, come se fosse una cosa passeggera. E quindi la precarietà , le difficoltà per un ventenne, un trentenne, ma anche di più di riuscire non dico tanto a costruirsi un futuro, quanto proprio di immaginarlo. A un certo punto ho sentito l’esigenza di mettere sotto forma di canzone questo stato di assedio nel quale sistematicamente siamo. Quello che mi fa il mio paese, questo paese immobilizzato su se stesso. Alla fine cosa significa essere precari, non poter immaginare un futuro. Tutto questo ho cercato di sublimarlo in una canzone con il modo che ho imparato.
D: A proposito del mobbing, che cosa rappresenta per te?
R: Il mobbing è una cosa molto seria, ed è un caso giuridico. E’ quello che si verifica nei posti di lavoro, nei quali alla persona mobbizzata vengono create una serie di difficoltà . La mia è una metafora, ma è’una cosa che capita a molte persone, in questo paese ma non solo in questo paese. Il fatto di avere un paese che invece di aiutare i propri cittadini ad essere cittadini e quindi a sviluppare se stessi, fa di tutto per troncargli le gambe. Questo è inaccettabile.
D: Come mai hai scelto proprio “Le Déserteur” di Boris Vian come tema per parlare della guerra?
R: Consideriamo che questa è la canzone pacifista in assoluta nella storia della musica. E poi mi piaceva questa idea della guerra che cambia. Noi dal 1945 non abbiamo più guerre vere e proprie. In realtà io credo che la guerra abbia cambiato forma e che la guerra la combattiamo quotidianamente, e fa vittime, basta leggere sui giornali della crisi e di quanti non ce l’hanno fatta. Credo che di guerra si debba parlare, ovviamente una guerra non convenzionale, come può essere proprio il mobbing. Mi piaceva l’idea di richiamare “Il Disertore” di Vian con quella frase finale “Io armi non ne ho”, una sorta di frase disperata.
D: Per il futuro cos’hai in mente?
R: Sicuramente continuerò a scrivere, poi ci sarà un cd tra le varie tappe di questo nuovo progetto. Poi fondamentalmente in questi anni guardando molto la televisione, perché ho cercato di capire quale fosse il modo giusto di comunicare le cose che si fanno. Anche lì sto cercando di strutturare una combinazione non convenzionale, quantomeno parallela. Se la comunicazione avviene su un binario, io cerco di stare sul binario accanto.
In questa intervista ci racconta di come ha reagito all’esclusione da questo Sanremo e della conseguente operazione #sanremoperforza, di cosa sia per lui il mobbing, e del perché della sua scelta di richiamare proprio “Le Déserteur” di Boris Vian come tema per parlare della guerra.
D: Alessandro, che cos’è per te la musica?
R: La musica è allo stesso tempo un dono e una condanna, nel senso che è qualcosa che ti segue, che ti sta vicino, in qualche modo ti condiziona per tutta la vita. Almeno per quanto mi riguarda è un qualcosa che pure se volessi togliermi di dosso resterebbe sempre attaccata. Quindi sicuramente un dono perché lavorando e studiando si riesce anche a perfezionarsi, ma dall’altra parte è qualcosa un po’ come fosse un braccio, una gamba.
D: Quando inizia e come si svolge la tua carriera artistica?
R: Io ho fatto due Sanremo tanti anni fa in cui ho avuto un grosso successo, con un Disco d’Oro. Poi ho interrotto volontariamente questo percorso, e ho cercato di riprendermi il mio tempo. Questo significava crescere seguendo determinate esigenze. Ho fatto un disco con Gianni Maroccolo dei Marlene Kuntz, ho collaborato con Edoardo Sanguineti, il più grande poeta del ‘900, e poi adesso ho un nuovo progetto, che è un progetto solista, si può dire il terzo disco di Alessandro Errico come solista.
D: Quando hai saputo dell’esclusione da Sanremo cos’hai provato?
R: Per me la cosa è stata assolutamente pacifica. Sinceramente dopo quindici anni di silenzio a livello di mainstream è chiaro che non mi aspettavo dopo un mese che esco con un singolo di essere preso già a Sanremo. E’un diritto e un dovere di un direttore artistico quello di scegliere e selezionare il proprio cast, perché poi in fondo è il suo spettacolo, quello che gli andava bene. E poi da lì il fatto di fare un festival solo con canzoni d’amore, questo è un altro paio di maniche.
D: Come ti è venuta in mente l’operazione #sanremoperforza?
R: Perché ho letto delle interviste, i primi feedback dei giornalisti che ascoltavano le canzoni e dicevano “Caspita, ma tutte le canzoni parlano d’amore, come mai?”. Mi sono detto: caspita, nel 2014, in una condizione così complicata di questo paese, decidere di fare di Sanremo una sorta di zona franca, come se la musica non dovesse impicciarsi della realtà . Questa cosa mi ha dato proprio i brividi, ho detto bisogna replicare, bisogna fare qualcosa, non bisogna accettarla, io come musicista, come scrittore, mi sono sentito coinvolto. Però non volevo fare il solito muro contro muro, il solito controfestival di tutti gli anni. Ho cercato con l’ironia di aggirare l’ostacolo, di non andare al muro contro muro, ma allo stesso tempo di portare a Sanremo la realtà che era stata tenuta fuori.
D: Parlaci del brano “Il mio paese mi fa mobbing”.
R: E’una fotografia, un’istantanea. Io in questi quindici anni non ho campato d’aria, ho fatto la vita che avrei dovuto fare, questo ha significato anche sperimentare sulla mia pelle quella cosa che continuiamo a ostinarci a chiamare crisi, come se fosse una cosa passeggera. E quindi la precarietà , le difficoltà per un ventenne, un trentenne, ma anche di più di riuscire non dico tanto a costruirsi un futuro, quanto proprio di immaginarlo. A un certo punto ho sentito l’esigenza di mettere sotto forma di canzone questo stato di assedio nel quale sistematicamente siamo. Quello che mi fa il mio paese, questo paese immobilizzato su se stesso. Alla fine cosa significa essere precari, non poter immaginare un futuro. Tutto questo ho cercato di sublimarlo in una canzone con il modo che ho imparato.
D: A proposito del mobbing, che cosa rappresenta per te?
R: Il mobbing è una cosa molto seria, ed è un caso giuridico. E’ quello che si verifica nei posti di lavoro, nei quali alla persona mobbizzata vengono create una serie di difficoltà . La mia è una metafora, ma è’una cosa che capita a molte persone, in questo paese ma non solo in questo paese. Il fatto di avere un paese che invece di aiutare i propri cittadini ad essere cittadini e quindi a sviluppare se stessi, fa di tutto per troncargli le gambe. Questo è inaccettabile.
D: Come mai hai scelto proprio “Le Déserteur” di Boris Vian come tema per parlare della guerra?
R: Consideriamo che questa è la canzone pacifista in assoluta nella storia della musica. E poi mi piaceva questa idea della guerra che cambia. Noi dal 1945 non abbiamo più guerre vere e proprie. In realtà io credo che la guerra abbia cambiato forma e che la guerra la combattiamo quotidianamente, e fa vittime, basta leggere sui giornali della crisi e di quanti non ce l’hanno fatta. Credo che di guerra si debba parlare, ovviamente una guerra non convenzionale, come può essere proprio il mobbing. Mi piaceva l’idea di richiamare “Il Disertore” di Vian con quella frase finale “Io armi non ne ho”, una sorta di frase disperata.
D: Per il futuro cos’hai in mente?
R: Sicuramente continuerò a scrivere, poi ci sarà un cd tra le varie tappe di questo nuovo progetto. Poi fondamentalmente in questi anni guardando molto la televisione, perché ho cercato di capire quale fosse il modo giusto di comunicare le cose che si fanno. Anche lì sto cercando di strutturare una combinazione non convenzionale, quantomeno parallela. Se la comunicazione avviene su un binario, io cerco di stare sul binario accanto.