di Francesco Greco - To be ot nor to be? This is the question. Il dubbio di Amleto è lo stesso dell’Europa. Rinnovarsi o perire. Giunta a uno snodo epocale della sua storia, deve ritrovare se stessa, la sua funzione, il ruolo, le motivazioni, riprendere la narrazione interrotta (emanciparsi dagli Usa-balia, come teorizzava Tocqueville per gli Stati-Nazione). E siccome i tempi della politica si son fatti contratti, rapsodici, quasi rabbiosi, deve farlo prima possibile.
La crisi identitaria, di prospettive, sistemica, affatto ciclica, accentuata dal relativismo del liberismo hard (il mercato regola tutto) degli ultimi sette anni, le ricette lacrime e sangue dettate da una mondializzazione che ha sparso ovunque precarietà, insicurezza, povertà e desertificazione di diritti e valori inalienabili, frutto di conquiste secolari, nelle interfacce delle società e preferite a opzioni mirate alla crescita e all’inclusione, hanno accelerato il rischio di atomizzazione, con tutti gli scompensi geopolitici planetari automatici, in primis il rigurgito dei nazionalismi su cui Mitterand ammonì: “…portano alla guerra! La guerra non è solamente il nostro passato, ma può essere anche il nostro futuro”.
Il maglio devastante di populismi e nichilismi, che promettono paradisi in terra fuori dall’Ue e dall’euro e degli ispidi separatismi (in ogni Stato c’è chi scalcia per farsi la sua contea feudale, la repubblica delle banane: per andare dove? per fare cosa?) mirano a destrutturare l’idea maieutica, ontologica che portò all’Ue, disarticolare l’etimo intimo, lo spirito stesso infuso dai fondatori. Che teorizzarono un’Europa dei cittadini, sulle radici di nobili civiltà, non piramidale, di avidi bankster e spocchiosi burocrati, tesa a occuparsi di progresso, opportunità, di ricaduta vasta, non dei cm. dei cetrioli e altre amenità demenziali e metafisiche.
Ce n’è abbastanza - alla vigilia di una competizione elettorale che potrebbe trasfigurarsi, anche con l’astensionismo annunciato (fra euroscettici e contrari in Italia sono il 70%) e con liste zeppe di avventurieri e pregiudicati in cerca di impunità, nell’Apocalisse – per delle riflessioni pregnanti che Massimo D’Alema affida a “Nonsoloeuro” (Democrazia, lavoro, uguaglianza. Una nuova frontiera per l’Europa), Rubbettino editore 2014, Soveria Mannelli (Cz), pp. 136, € 12.00.
Lontano dalla palude del Parlamento (un’intelligenza acuta come Sciascia diceva che le decisioni erano prese altrove), il Lider Maximo s’è ritagliato il ruolo di fine analista di geopolitica (micro, meso, maso), è presidente di Italianieuropei e della Foundation for European Progressive Studies (Feps) e quindi ha una visione global del mondo, gli equilibri nelle aree insonni, ordini e disordini, che gli dà autorevolezza grazie anche alle frequentazioni degli statisti della Terra: da Blair a Gorbaciov, passando per Schroeder, Clinton, Holland, i capitalcomunisti cinesi, ecc.
E dunque, per D’Alema è innanzitutto, presso l’immaginario collettivo, una questione di percezione: “la democrazia delle istituzioni dell’Unione, la loro credibilità e legittimazione sono messe in discussione da un vasto e multiforme sentimento popolare che ha finito per considerare la Ue non come una risposta alla crisi ma come fattore di aggravamento del disagio e dell’insicurezza”. Come dire: un Moloch micidiale, strumento di dominio dei destini dei popoli. Tornare allo spirito dei “padri” fondatori (De Gasperi, Adenauer, Spinelli, Martino, ecc.) è perciò urgente e vitale, per un’Europa politica, dei popoli, dei cittadini ancora attesa.
Quell’Europa, riflette D’Alema “ha garantito pace, benessere e speranza per decenni… successi straordinari, almeno fino alla nascita dell’euro e l’allargamento ai Paesi dell’Europa Centrale e orientale ”. Ma, aggiungeremmo noi, anche il non capire che ci sono due Europe: continentale e mediterranea, e quindi due specificità, due velocità. Ecco dunque lo spartiacque: la moneta unica e l’ampliamento, precipitoso ma giusto, per dare opportunità a popoli che avevano vissuto le asprezze di regimi al crepuscolo. Il saggista ci dice che sono stati impostati e “comunicati” male, provocando una “divaricazione dirompente” ma anche una desertificazione dell’humus su cui l’Ue era stata edificata. Da qui la sua “debolezza politica”, forse naturale: tanta acqua è passata sotto i ponti da quel trattato, marzo 1957 a Roma.
La recessione provocata da “una globalizzazione senza regole”, da legge della foresta, dall’etica infame, elitaria, che ha aggravato “le disuguaglianze”, sfociata in una crisi “economica e sociale, ma anche politica” oltre che di credibilità, hanno fatto il resto. Intra moenia tutto è stato moltiplicato in mille echi “dalle politiche populiste di Berlusconi e della Lega Nord e, recentemente, anche con la nascita del Movimento 5 Stelle” (Prodi aveva risanato: c’era anche un “tesoretto”). Extra moenia hanno prevalso gli egoismi nazionali (incarnati dalla Merkel) e le strategie di lotta dimostratesi una medicina peggiore del male e che rischiano di far collassare il malato: “L’idea che la crescita verrà dal binomio austerità più riforme strutturali – osserva D’Alema - ha dimostrato tutta la sua inconsistenza”. E quindi tutto è da rimodulare: “Non c’è Paese al mondo dove la crescita non sia sostenuta da rilevanti investimenti pubblici di qualità e da un aumento della domanda interna”.
Un saggio ricco di spunti, tutto da leggere, in cui l’uomo politico attinge a una vasta bibliografia (da Habermas a Clinton), utile per capire “che fare?” (“la politica con la P maiuscola” perché “il mondo ha bisogno di un’Europa forte”) nel guado in cui il vecchio continente è finito e soprattutto rafforzare la coscienza che, come la fenice, può rinascere poiché, chiosa lo statista “ricco di energie, di cultura, di capacità di innovazione e di ricerca”. Un appuntamento con la Storia (“sfide globali”) che fallire sarebbe un suicidio, un viscido tunnel denso di rischi d’ogni sorta, forse senza ritorno. Europa, oh cara!
La crisi identitaria, di prospettive, sistemica, affatto ciclica, accentuata dal relativismo del liberismo hard (il mercato regola tutto) degli ultimi sette anni, le ricette lacrime e sangue dettate da una mondializzazione che ha sparso ovunque precarietà, insicurezza, povertà e desertificazione di diritti e valori inalienabili, frutto di conquiste secolari, nelle interfacce delle società e preferite a opzioni mirate alla crescita e all’inclusione, hanno accelerato il rischio di atomizzazione, con tutti gli scompensi geopolitici planetari automatici, in primis il rigurgito dei nazionalismi su cui Mitterand ammonì: “…portano alla guerra! La guerra non è solamente il nostro passato, ma può essere anche il nostro futuro”.
Il maglio devastante di populismi e nichilismi, che promettono paradisi in terra fuori dall’Ue e dall’euro e degli ispidi separatismi (in ogni Stato c’è chi scalcia per farsi la sua contea feudale, la repubblica delle banane: per andare dove? per fare cosa?) mirano a destrutturare l’idea maieutica, ontologica che portò all’Ue, disarticolare l’etimo intimo, lo spirito stesso infuso dai fondatori. Che teorizzarono un’Europa dei cittadini, sulle radici di nobili civiltà, non piramidale, di avidi bankster e spocchiosi burocrati, tesa a occuparsi di progresso, opportunità, di ricaduta vasta, non dei cm. dei cetrioli e altre amenità demenziali e metafisiche.
Ce n’è abbastanza - alla vigilia di una competizione elettorale che potrebbe trasfigurarsi, anche con l’astensionismo annunciato (fra euroscettici e contrari in Italia sono il 70%) e con liste zeppe di avventurieri e pregiudicati in cerca di impunità, nell’Apocalisse – per delle riflessioni pregnanti che Massimo D’Alema affida a “Nonsoloeuro” (Democrazia, lavoro, uguaglianza. Una nuova frontiera per l’Europa), Rubbettino editore 2014, Soveria Mannelli (Cz), pp. 136, € 12.00.
Lontano dalla palude del Parlamento (un’intelligenza acuta come Sciascia diceva che le decisioni erano prese altrove), il Lider Maximo s’è ritagliato il ruolo di fine analista di geopolitica (micro, meso, maso), è presidente di Italianieuropei e della Foundation for European Progressive Studies (Feps) e quindi ha una visione global del mondo, gli equilibri nelle aree insonni, ordini e disordini, che gli dà autorevolezza grazie anche alle frequentazioni degli statisti della Terra: da Blair a Gorbaciov, passando per Schroeder, Clinton, Holland, i capitalcomunisti cinesi, ecc.
E dunque, per D’Alema è innanzitutto, presso l’immaginario collettivo, una questione di percezione: “la democrazia delle istituzioni dell’Unione, la loro credibilità e legittimazione sono messe in discussione da un vasto e multiforme sentimento popolare che ha finito per considerare la Ue non come una risposta alla crisi ma come fattore di aggravamento del disagio e dell’insicurezza”. Come dire: un Moloch micidiale, strumento di dominio dei destini dei popoli. Tornare allo spirito dei “padri” fondatori (De Gasperi, Adenauer, Spinelli, Martino, ecc.) è perciò urgente e vitale, per un’Europa politica, dei popoli, dei cittadini ancora attesa.
Quell’Europa, riflette D’Alema “ha garantito pace, benessere e speranza per decenni… successi straordinari, almeno fino alla nascita dell’euro e l’allargamento ai Paesi dell’Europa Centrale e orientale ”. Ma, aggiungeremmo noi, anche il non capire che ci sono due Europe: continentale e mediterranea, e quindi due specificità, due velocità. Ecco dunque lo spartiacque: la moneta unica e l’ampliamento, precipitoso ma giusto, per dare opportunità a popoli che avevano vissuto le asprezze di regimi al crepuscolo. Il saggista ci dice che sono stati impostati e “comunicati” male, provocando una “divaricazione dirompente” ma anche una desertificazione dell’humus su cui l’Ue era stata edificata. Da qui la sua “debolezza politica”, forse naturale: tanta acqua è passata sotto i ponti da quel trattato, marzo 1957 a Roma.
La recessione provocata da “una globalizzazione senza regole”, da legge della foresta, dall’etica infame, elitaria, che ha aggravato “le disuguaglianze”, sfociata in una crisi “economica e sociale, ma anche politica” oltre che di credibilità, hanno fatto il resto. Intra moenia tutto è stato moltiplicato in mille echi “dalle politiche populiste di Berlusconi e della Lega Nord e, recentemente, anche con la nascita del Movimento 5 Stelle” (Prodi aveva risanato: c’era anche un “tesoretto”). Extra moenia hanno prevalso gli egoismi nazionali (incarnati dalla Merkel) e le strategie di lotta dimostratesi una medicina peggiore del male e che rischiano di far collassare il malato: “L’idea che la crescita verrà dal binomio austerità più riforme strutturali – osserva D’Alema - ha dimostrato tutta la sua inconsistenza”. E quindi tutto è da rimodulare: “Non c’è Paese al mondo dove la crescita non sia sostenuta da rilevanti investimenti pubblici di qualità e da un aumento della domanda interna”.
Un saggio ricco di spunti, tutto da leggere, in cui l’uomo politico attinge a una vasta bibliografia (da Habermas a Clinton), utile per capire “che fare?” (“la politica con la P maiuscola” perché “il mondo ha bisogno di un’Europa forte”) nel guado in cui il vecchio continente è finito e soprattutto rafforzare la coscienza che, come la fenice, può rinascere poiché, chiosa lo statista “ricco di energie, di cultura, di capacità di innovazione e di ricerca”. Un appuntamento con la Storia (“sfide globali”) che fallire sarebbe un suicidio, un viscido tunnel denso di rischi d’ogni sorta, forse senza ritorno. Europa, oh cara!