'I versi della polvere', nel cuore insonne del Big-Bang
di Francesco Greco - La prima sensazione è di un grande stordimento, di un assenzio troppo forte, un mantra malioso, delirante come una preghiera blasfema che esce dalle labbra arse dell’uomo che soffre (“Lo schianto tumulò gli anni”). Come nel cuore insonne del Big-Bang, scagliati dalla bufera come granelli di sabbia negli abissi siderali, sospesi ai confini dell’ultima glaciazione, nel deserto della ragione, all’alba delle parole, quand’erano ancora pregne del senso del loro etimo primordiale e il relativismo non le aveva ancora spogliate.
“I versi schiusero / sette germogli / suggellarono i canti dell’Angelo, dell’Unico Angelo / immolato all’Eternità. / Regneranno nel mondo / a ogni distruzione. / Ascoltate”. (Prologo). Se, come diceva Charles Bukowski, la poesia deve dire molto con poche parole, ne “I versi della polvere” (L’Aquila 6 aprile 2009), Argo Editore, Lecce 2014, pp. 56, € 10.00, Lara Savoia scarnifica i versi sino ad affollarli semanticamente di significati significanti, ingravidarli del sottinteso, di messaggi carsici che li innervano di una forza possente e magica, di un’energia invincibile, di una luce violenta che svela una percezione dell’uomo e del sentimento catturata e miracolosamente imprigionata sulla carta. E’ come se la poetessa avesse combattuto con l’Aleph per carpigli il segreto dell’Universo, degli Universi (“Il suono delle parole / la fuliggine della memoria…”) e dell’essere e ci fosse prodigiosamente riuscita.
La polvere è quella dei calcinacci caduti intorno a lei e su di lei (studentessa di Medicina a L’Aquila) nella notte del terremoto (“nel sonno, / sibili crolli / attraversarono inganno e volontà / ampliandosi tra il cemento.”) e da cui è uscita viva (“Crollarono travi / precipitarono basi / sprofondarono difese / discesero silenzi e tenebre…”) mentre intorno urla di donne, pianti di bambini, lamenti di ragazzi (“Era era giorno! giorno! / Nella culla l’embrione del Non-Senso / imploso nella vita larvale, / quando in silenzio vivevo il nulla / nell’amnios / con una corda che mi nutirva di morte.”). Sospesa in una dimensione fra un mondo e l’altro, in quella laguna vellutata dove il cuore si ferma sgomento perché la vita si è consumata ma la morte tarda ad arrivare, la poetessa è tornata (“Camminai tra gli scheletri; sapevano di stagno, licheni… ”) per rubare rottami di parole, schegge di frasi, pietre arse per farne versi dolenti e vivi.
“Poemetto profondamente ermetico - Mario Desiati nella presentazione – si instaurano significati ulteriori rispetto alle sembianze del neo-orfismo”. La password da usare per la decodificazione de “I versi della polvere” (pensato in sette poemi, il sette è ricorrente: un numero alchemico; terza prova della poetessa pugliese dopo “Flauto e Serpente”, 2007 e “I miei giochi scomposti”, 2010) è polisemica, plurale, contaminata dalle sue letture.
Cita l’Apocalisse (12, 3-4): “Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi: la sua coda trascinava già un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato”. E il “Paradiso perduto” di Jhon Milton (VI, 333-337): “Ma la sostanza eterea, che non era divisibile a lungo, di nuovo si addensava, e dallo squarcio uscì fluendo sanguigno un rivolo di umore simile a nettare, quale versano infatti gli spiriti celesti, e macchiò l’armatura che prima sfolgorava”.
Di rado la poesia osa tanto e solo di rado provoca un turbamento tanto forte: la poesia di ieri, oggi, domani. Da Saffo che si lamenta per la caducità effimera della passione a Tagore che voga lontano dalla riva dove l’amante si bagna per non darle noia, sino alle “cetre appese alle fronde dei salici / oscillavano lievi al triste vento” di Quasimodo e a Garcia-Lorca (“Il cielo si oscurerà / ragazza di campagna…”). Ma il suo compito filologico, etico, è anche quello di essere impudica e folle, violenta sino alla brutalità, di comporre e scomporre il puzzle del senso, di atomizzare la ragione e la realtà (“d’inverno sorgo / e i miei frammenti portano altri mondi”). Lara Savoia questo ha fatto: si è spinta al di là del Bene e del Male, ha strisciato fra la polvere delle macerie quotidiane (“Calpestavo bambole: fanciullezza / foto: adolescenza / quadri: vecchiaia. / Incedevo sull’uomo.”) per afferrare il sublime, l’azzardo, il respiro caldo del tempo, l’aum segreto, melodioso dell’Universo e fissarlo per sempre sulla carta. La poesia glien’è grata: come lei stessa dice nell’epilogo (“Sottopongo all’attenzione degli eventi / degli angeli, arcangeli, cherubini / delle sinfonie, dei fuochi / delle albe, delle costellazioni, dei mondi.”) che chiude il poema “I versi posero”.
“I versi schiusero / sette germogli / suggellarono i canti dell’Angelo, dell’Unico Angelo / immolato all’Eternità. / Regneranno nel mondo / a ogni distruzione. / Ascoltate”. (Prologo). Se, come diceva Charles Bukowski, la poesia deve dire molto con poche parole, ne “I versi della polvere” (L’Aquila 6 aprile 2009), Argo Editore, Lecce 2014, pp. 56, € 10.00, Lara Savoia scarnifica i versi sino ad affollarli semanticamente di significati significanti, ingravidarli del sottinteso, di messaggi carsici che li innervano di una forza possente e magica, di un’energia invincibile, di una luce violenta che svela una percezione dell’uomo e del sentimento catturata e miracolosamente imprigionata sulla carta. E’ come se la poetessa avesse combattuto con l’Aleph per carpigli il segreto dell’Universo, degli Universi (“Il suono delle parole / la fuliggine della memoria…”) e dell’essere e ci fosse prodigiosamente riuscita.
La polvere è quella dei calcinacci caduti intorno a lei e su di lei (studentessa di Medicina a L’Aquila) nella notte del terremoto (“nel sonno, / sibili crolli / attraversarono inganno e volontà / ampliandosi tra il cemento.”) e da cui è uscita viva (“Crollarono travi / precipitarono basi / sprofondarono difese / discesero silenzi e tenebre…”) mentre intorno urla di donne, pianti di bambini, lamenti di ragazzi (“Era era giorno! giorno! / Nella culla l’embrione del Non-Senso / imploso nella vita larvale, / quando in silenzio vivevo il nulla / nell’amnios / con una corda che mi nutirva di morte.”). Sospesa in una dimensione fra un mondo e l’altro, in quella laguna vellutata dove il cuore si ferma sgomento perché la vita si è consumata ma la morte tarda ad arrivare, la poetessa è tornata (“Camminai tra gli scheletri; sapevano di stagno, licheni… ”) per rubare rottami di parole, schegge di frasi, pietre arse per farne versi dolenti e vivi.
“Poemetto profondamente ermetico - Mario Desiati nella presentazione – si instaurano significati ulteriori rispetto alle sembianze del neo-orfismo”. La password da usare per la decodificazione de “I versi della polvere” (pensato in sette poemi, il sette è ricorrente: un numero alchemico; terza prova della poetessa pugliese dopo “Flauto e Serpente”, 2007 e “I miei giochi scomposti”, 2010) è polisemica, plurale, contaminata dalle sue letture.
Cita l’Apocalisse (12, 3-4): “Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi: la sua coda trascinava già un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato”. E il “Paradiso perduto” di Jhon Milton (VI, 333-337): “Ma la sostanza eterea, che non era divisibile a lungo, di nuovo si addensava, e dallo squarcio uscì fluendo sanguigno un rivolo di umore simile a nettare, quale versano infatti gli spiriti celesti, e macchiò l’armatura che prima sfolgorava”.
Di rado la poesia osa tanto e solo di rado provoca un turbamento tanto forte: la poesia di ieri, oggi, domani. Da Saffo che si lamenta per la caducità effimera della passione a Tagore che voga lontano dalla riva dove l’amante si bagna per non darle noia, sino alle “cetre appese alle fronde dei salici / oscillavano lievi al triste vento” di Quasimodo e a Garcia-Lorca (“Il cielo si oscurerà / ragazza di campagna…”). Ma il suo compito filologico, etico, è anche quello di essere impudica e folle, violenta sino alla brutalità, di comporre e scomporre il puzzle del senso, di atomizzare la ragione e la realtà (“d’inverno sorgo / e i miei frammenti portano altri mondi”). Lara Savoia questo ha fatto: si è spinta al di là del Bene e del Male, ha strisciato fra la polvere delle macerie quotidiane (“Calpestavo bambole: fanciullezza / foto: adolescenza / quadri: vecchiaia. / Incedevo sull’uomo.”) per afferrare il sublime, l’azzardo, il respiro caldo del tempo, l’aum segreto, melodioso dell’Universo e fissarlo per sempre sulla carta. La poesia glien’è grata: come lei stessa dice nell’epilogo (“Sottopongo all’attenzione degli eventi / degli angeli, arcangeli, cherubini / delle sinfonie, dei fuochi / delle albe, delle costellazioni, dei mondi.”) che chiude il poema “I versi posero”.