di Francesco Greco - “Sto imparando a ricamare, come tutti, / con la stoffa che mi è arrivata a casa” (Il mio vestito). Matteo Greco ricama parole, restituendole al loro ancestrale nitore, riempiendole del senso da cui sono state svuotate. Parole che richiamano gesti, emozioni, sentimenti: spolpati, devitalizzati dalla modernità e le sue insulse icone che spargono conformismo globalizzante, che uccidono l’unicità che è nell’uomo, in ogni cosa: un albero, un animale, una pietra, un tramonto, una stella “in una terra fatta di asperità e improvvise annichilenti dolcezze…” (Davide Rondoni nella prefazione).
“Giorni fatti a mano” (44 poesie per 132 fermate), edizioni Subway, Milano 2013, pp. 76, s.i.p. (progetto grafico di Michele Marchesi) è una raccolta di versi inaspettata, spiazzante, capace di stupire pagina dopo pagina. Diciamolo sottovoce: siamo sommersi da poeti e poesie, e la maggior parte delle pubblicazioni, come direbbe Charles Bukowski, sono buone per metterle sotto la scrivania zoppicante. O per accendere il fuoco, diremmo noi mediterranei con i nostri inverni umidi e i camini sempre accesi a esorcizzare il freddo e gli spiriti malvagi e i demoni.
Per cui guardiamo sempre con sospetto ai libri di poesia quando i corrieri ce li consegnano. Li si apre con circospezione, disincanto, pregando le ninfe e i satiri di sorprenderci con qualche buon verso. Come questi: “Non coprirmi, cielo, / non calmarmi / non saziarmi / di silenzio o niente” (Neve). O questi: “Anche con i chiodi ai piedi / anche se sempre tampinato / da un esercito di candelabri / da un branco di veli neri, / ti piacerà / fare un giro su una astro che si è perso…” (Via Crucis a Gagliano del Capo).
E’ il paese dove il giovane (32 anni) è nato, affacciato sull’Adriatico, le bianche montagne albanesi di fronte e a sud-est le isole greche del mito, degli dei antropomoforfi che vivono vite gaie e lievi, impertinenti e provocatorie (i nostri sono tristi e violenti). Lo sgaurdo di Matteo Greco sul mondo e le cose, l’anima e il nirvana, lo spleen e l’hashtag è cosmopolita, avendo rafforzato e contaminato i suoi topoi neoclassici con altri lontani: ha studiato a Bologna e Limoges (Francia), ora vive a Milano, ma si concede incursioni nella madre terra, la “piccola patria” per sondare “strade più personali”, pregne di pollini, di scirocco, della salsedine del Ciolo, dei “cunti” dei vecchi nell’ultima osteria di paese.
Così i suoi versi sono aperti al cuore degli uomini, densi di pathos, di dialettica profonda con il nostro tempo (“restituiscono la poesia al mondo”, Paolo Polvani nella postfazione) e l’Universo infinito. “Vedi le forme / che ha la poesia / quando scende lungo le mani / come è pastosa / come si incastra negli anulari…” (Mutatis Mutandis).
“Qui è messo in scena un uso alternativo del linguaggio con la funzione di sbucciare la realtà” (ancora Polvani). Più che sbucciare, ricreare il senso, rimodulare un’altra semantica, immaginare altri orizzonti ermeneutici. Commuoversi e piangere per la vità abortita, ma che Greco intravede sotto la scorza delle parole e che, ci dice, può tornare a essere vissuta con gioia primordiale, da eden ritrovato, da mare ripulito dalle nefandezze.
Compito “istituzionale” del poeta è restituire anima alle parole, il loro senso perduto, stuprato, ritrovare la vita negata, affinchè il tempo sia sottratto a ogni castrazione e tornino a fluire con la sensualità del Big-Bang i bosoni di Higgs. Greco sublima la sua ricerca poetica in una catarsi delle asprezze (“cocci aguzzi di bottiglia”, direbbe Alfonso Gatto) e stoltezze di cui è cosparsa questa presunta, suggestiva modernità dalla solitudine dilatata, globalizzante. Ci porta fuori dalla “bufera” come la intendeva Montale e ci accosta alla riva dove le ragazze intrecciano fiori, come nella poesia di Tagore.
I suoi versi ci permettono di reinventare noi stessi, purificare il nostro sguardo, ritrovare l’innocenza del cuore, l’etimo primitivo delle parole. Di librarci nel cielo come l’albatros di Baudelaire e ascoltare il blues segreto dell’Universo. Greco ci fa entrare nella sua “officina”, nel “laborintus” direbbe Sanguineti e ci convince che l’usura poundiana si può relativizzare, un’altra vita si può osare: sospesi fra l’assenzio di Dylan Thomas e il dolce vino di Hikmet. Un mondo nuovo è possibile, un uomo riconciliato con se stesso e la bellezza che gli pulsa dentro, intorno, oltre l’orizzonte senza ombra.
“Giorni fatti a mano” (44 poesie per 132 fermate), edizioni Subway, Milano 2013, pp. 76, s.i.p. (progetto grafico di Michele Marchesi) è una raccolta di versi inaspettata, spiazzante, capace di stupire pagina dopo pagina. Diciamolo sottovoce: siamo sommersi da poeti e poesie, e la maggior parte delle pubblicazioni, come direbbe Charles Bukowski, sono buone per metterle sotto la scrivania zoppicante. O per accendere il fuoco, diremmo noi mediterranei con i nostri inverni umidi e i camini sempre accesi a esorcizzare il freddo e gli spiriti malvagi e i demoni.
Per cui guardiamo sempre con sospetto ai libri di poesia quando i corrieri ce li consegnano. Li si apre con circospezione, disincanto, pregando le ninfe e i satiri di sorprenderci con qualche buon verso. Come questi: “Non coprirmi, cielo, / non calmarmi / non saziarmi / di silenzio o niente” (Neve). O questi: “Anche con i chiodi ai piedi / anche se sempre tampinato / da un esercito di candelabri / da un branco di veli neri, / ti piacerà / fare un giro su una astro che si è perso…” (Via Crucis a Gagliano del Capo).
E’ il paese dove il giovane (32 anni) è nato, affacciato sull’Adriatico, le bianche montagne albanesi di fronte e a sud-est le isole greche del mito, degli dei antropomoforfi che vivono vite gaie e lievi, impertinenti e provocatorie (i nostri sono tristi e violenti). Lo sgaurdo di Matteo Greco sul mondo e le cose, l’anima e il nirvana, lo spleen e l’hashtag è cosmopolita, avendo rafforzato e contaminato i suoi topoi neoclassici con altri lontani: ha studiato a Bologna e Limoges (Francia), ora vive a Milano, ma si concede incursioni nella madre terra, la “piccola patria” per sondare “strade più personali”, pregne di pollini, di scirocco, della salsedine del Ciolo, dei “cunti” dei vecchi nell’ultima osteria di paese.
Così i suoi versi sono aperti al cuore degli uomini, densi di pathos, di dialettica profonda con il nostro tempo (“restituiscono la poesia al mondo”, Paolo Polvani nella postfazione) e l’Universo infinito. “Vedi le forme / che ha la poesia / quando scende lungo le mani / come è pastosa / come si incastra negli anulari…” (Mutatis Mutandis).
“Qui è messo in scena un uso alternativo del linguaggio con la funzione di sbucciare la realtà” (ancora Polvani). Più che sbucciare, ricreare il senso, rimodulare un’altra semantica, immaginare altri orizzonti ermeneutici. Commuoversi e piangere per la vità abortita, ma che Greco intravede sotto la scorza delle parole e che, ci dice, può tornare a essere vissuta con gioia primordiale, da eden ritrovato, da mare ripulito dalle nefandezze.
Compito “istituzionale” del poeta è restituire anima alle parole, il loro senso perduto, stuprato, ritrovare la vita negata, affinchè il tempo sia sottratto a ogni castrazione e tornino a fluire con la sensualità del Big-Bang i bosoni di Higgs. Greco sublima la sua ricerca poetica in una catarsi delle asprezze (“cocci aguzzi di bottiglia”, direbbe Alfonso Gatto) e stoltezze di cui è cosparsa questa presunta, suggestiva modernità dalla solitudine dilatata, globalizzante. Ci porta fuori dalla “bufera” come la intendeva Montale e ci accosta alla riva dove le ragazze intrecciano fiori, come nella poesia di Tagore.
I suoi versi ci permettono di reinventare noi stessi, purificare il nostro sguardo, ritrovare l’innocenza del cuore, l’etimo primitivo delle parole. Di librarci nel cielo come l’albatros di Baudelaire e ascoltare il blues segreto dell’Universo. Greco ci fa entrare nella sua “officina”, nel “laborintus” direbbe Sanguineti e ci convince che l’usura poundiana si può relativizzare, un’altra vita si può osare: sospesi fra l’assenzio di Dylan Thomas e il dolce vino di Hikmet. Un mondo nuovo è possibile, un uomo riconciliato con se stesso e la bellezza che gli pulsa dentro, intorno, oltre l’orizzonte senza ombra.