'Erano solo tre ciliegi', un piccolo caso letterario

di Francesco Greco. GALATINA (Le) – Tre racconti deliziosi, scritti in punta di penna, in stato di grazia (si direbbe in trance), attraversati da una pietas umana prima che civile, ma anche dalla speranza intesa come dovere etico per chi erediterà questo pianeta dopo di noi. Ed è subito “caso” letterario. In un panorama editoriale disidratato, sospeso fra autoreferenziali e “ventriloqui”, “Erano solo tre ciliegi”, di Serena Castro Steri (editore Terra d’Ulivi, Lecce 2014, pp. 50, € 9) si impone per la freschezza dello stile, la leggerezza del tocco, la magia, un tessuto narrativo che scorre gaio come un ruscello scintillante al sole della primavera.
 
Nata negli Usa, infanzia in Africa (“è come un tatuaggio dentro di me”), dove il padre imprenditore ha costruito strade, ha vissuto in Puglia e oggi a Trieste. Un melting pot pregno come mosto, che dà al suo sguardo blu un atout cosmopolita, inondandolo di un pathos che si trasfigura in quello dell’Universo, dei popoli, delle culture. Pare quasi di risentire Tolstoj: “Parla del tuo villaggio e sarai universale”.
E dunque Serena Castro Stera (la seconda da sinistra nella foto di Massimo Steri) dilata lo sguardo blu immergendolo nel dolore della condizione umana per dargli – anche nello scavo psicologico dei personaggi - una lucida potenza dialettica, la forza di una metafora, usandolo come password per entrare nel magma dell’uomo, del mondo, sospesa fra un neorealismo dal codice intimista e un’osmosi palpitante fra l’uomo e il cosmo che configura quasi un “manifesto” ambientalista. 
 
Dalla vecchia Olga malata terminale ferita nell’amor proprio, ma vigile, viva (“la memoria della natura, quella dei sensi”) a cui la Bora (può arrivare anche a 150 kmh) abbatte l’albero dinanzi alla sua finestra dove sta morendo, alla ragazza giordana incinta, Jamila, che si oppone alla sradicamento di tre ciliegi perchè l’albero è un essere sacro come ogni cosa vivente e insiste con la vecchia Ursic inacidita, sospettosa a cui dona le focacce, sino alla barbona Magnolia che solo fra i fiori e le piante dei giardini si sente libera e che ha rinunciato al suo status borghese (“aveva studiato pianoforte e frequentato le arti visive fin da bambina”) per vivere in stretta osmosi con la natura e inseguire “il lusso di coltivare se stessa”, i personaggi sono accomunati dal dolore che portano inciso nel dna, tracimante, sovrastante, ma a cui reagiscono con orgoglio e fierezza: in fondo alla loro anima brilla una scintilla di vita indomabile, ancestrale (pensiamo agli eroi omerici, o delle saghe del Nord), perciò modernissima nel richiamo alla coscienza di sé e del tutto, perchè siamo tutti responsabili della bellezza del mondo. Di più: li tiene in vita una speranza ontologica (che nulla ha a che fare con la fede) non tanto di cambiare il mondo (anche se in Dario, lasciato dalla moglie Lucia per la quale è un “fallito”, che cura i giardini comunali e accoglie la barbona, c’è anche un risvolto pedagogico) quanto di dominare (domare: elemento del pensiero illuminista, dell’etica luterana) i destini che, direbbe il cinico Cioran, sono toccati loro in sorte. E’ anche qui la pienezza di questi racconti scossi da un’energia universale, illuminati da una fiamma che non teme la Bora, impregnati dell’anima mundi.
La coglie bene il prof. Graziano Benelli (Università di Trieste) in prefazione: “...scorre un robusto filo comune, riconducibile al rapporto che lega la dignità umana alla dignità della natura. L’essere umano e quello vegetale… vivono quasi in simbiosi, stabilendo una tacita quanto spontanea alleanza contro un mondo dominato dalla violenza del caos” (un clan di teppisti picchia a sangue la barbona, ma uno, il meno marcio già 14 anni, si pente). 

Il libro è stato proposto (dopo Squinzano, con gli alunni delle medie) a Galatina (nell’incantevole location dei giardini profumati del b&b “Palazzo Baffa”), in una serata intensa, magica (ottima organizzazione di Rosanna Verter, Silvia Cipolla, Isabella Indraccolo, Daniela Bardoscia di “Galatina Letterata”) in cui i silenzi e i sottintesi hanno detto, emozionato, toccato il cuore e la mente più delle parole. Succede quando si crea una sintonia di elementi che traspira poesia. Ha aperto l’assessore alla cultura Daniela Vantaggiato collocando la narratrice triestina (nel cassetto ha due romanzi) nella Mitteleuropa di Svevo, Joyce, Saba, Cialente. L’editore leccese Elio Scarciglia (fotografo e filmaker) ha detto del background del libro: “Di solito gli autori del Sud cercano editori al Nord: con la Castro è accaduto il contrario”. Quindi il critico letterario Emanuele Scarciglia s’è soffermato sulla “semplicità dello stile”, con “frasi di grande potenza evocativa” e di “pozzo di diamanti senza fondo”, mentre Antonio Imbò (critico letterario, “Accademia degli Incamminati”, Firenze), ha parlato di “diversi livelli di lettura”, di “impronta femminile”, di “linguaggio sfumato e senza spigoli”, di “solitudine dei personaggi” e di “incomunicabilità”, cifra lacerante del nostro tempo. 

Ora si attende la conferma di una originalità di stile risolta in una prosa limpida e possente come uno script per il cinema dai romanzi work in progress. Laddove però la Castro, sposata a un allenatore di volley di Secondigliano, tre figli (incoraggiata da un premio letterario ricevuto a Bologna, in giuria Raffaele Nigro) volesse farli restare inediti, con questi racconti ha già donato al mondo, e a noi disincantati inquilini, sufficiente dolcezza, ironia, poesia, ma soprattutto l’esile alito di una speranza che ci tiene in vita e senza la quale il nostro smarrimento leopardiano nella “selva oscura” sarebbe ancor più ispido e doloroso.

 


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