di Nicola Zuccaro - A 24 ore di distanza dalla sua uscita di scena dai Mondiali, la Nazionale italiana selezionata da Cesare Prandelli diventa, forse inopportunamente, l'emblema di un calcio italico malato in ogni sua espressione ed in ogni sua componente.
Impietosi i titoli dei quotidiani sportivi e non. Puntuali le critiche, le proteste e sopratutto i malumori espressi sui social network da chi per qualche ora ha voluto indossare i panni del commissario tecnico.
La disfatta sportiva è ormai acclarata ma non deve essere essere strumentalizzata per scrivere e sostenere che il calcio italiano deve ripartire da zero, ovvero come quel Palazzo che va abbattuto e ricostruito sulla base di nuove e solide fondamenta.
Dopo Sudafrica 2010 si intona ancora il ritornello di un calcio italico da rifondare se non - in lieve misura - da curare come un malato terminale, proponendo le più disparate ricerche. Per evitare che si continuino ad avanzare buone intenzioni e luoghi comuni è giusto, per dovere di cronaca, ripartire dalle dimissioni a ruota - dopo quelle di Prandelli - di Giancarlo Abete.
Dal Presidente Federale giunge l'assist che aiuta a penetrare nel cuore del problema ovvero nell'incapacità e nell'inerzia del governo calcistico italiano nell'apportare quei radicali mutamenti sia in ambito meramente gestionale con le annesse problematiche (quali ad esempio stadi vecchi e vuoti) che sotto il profilo puramente tecnico con il rilancio dei settori giovanili; ad incominciare da
quelli inerenti le corrispondenti rappresentative azzurre.
quelli inerenti le corrispondenti rappresentative azzurre.
Germania e Spagna sono (ri)partite da qui e i risultati degli ultimi 7 anni sono evidenti. L'Italia calcistica per tornare a dover essere (per la storia che rappresenta) competitiva dovrà, sulla
stregua di quella omologazione europea (funzionante già per altri settori), adeguarsi con atti concreti, al limite di una vera e propria rivoluzione. Altrimenti - parafrasando il titolo di un celebre film - agli italiani del pallone non resterà che arrabbiarsi.
stregua di quella omologazione europea (funzionante già per altri settori), adeguarsi con atti concreti, al limite di una vera e propria rivoluzione. Altrimenti - parafrasando il titolo di un celebre film - agli italiani del pallone non resterà che arrabbiarsi.