di Francesco Greco - Non commettete l’errore di mostrare agli amici i vini che avete comprato e che tenete sotto al letto, fra vecchie scarpe da joggins e il pc andato in tilt. Né di conservare le bottiglie in garage, alla luce del sole, accanto al tagliaerba e al canotto. E’ considerato blasfemo, il più grave dei peccati. In un amen la voce si spargerebbe, sareste indicato al pubblico ludibrio e non potreste più andare al baretto sotto casa, al centro commerciale, alla fermata della circolare rossa senza suscitare risatine e darsi di gomito.
I tempi cambiano: nel XXI secolo le enoteche sono le nuove chiese, le cantine i santuari dove avvengono riti curiosi, per iniziati, certi ristoranti sono considerati alla stregua di templi pagani o buddisti. Gli enologi i profeti del III millennio, gli assaggiatori più autorevoli del quotidiano di riferimento, i sommelier guru della modernità. Oggi che il vino è stato semanticamente affollato (“L’amore è una cosa meravigliosa, il vino lo è di più!”), i rapporti sociali e interpersonali sono decisi anche dal saper distinguere un bicchiere per lo spumante da quello per un Barolo da “riserva”; conoscere il significato di termini come blend, tannico, strutturato, perlàge, decanter, novello, ecc. apre un sacco di porte e opportunità.
La saccenteria italica (nel nostro dna, con le librerie di “dorsi”), lo sfoggio di cultura posticcia può giocare brutti scherzi a falangi macedoni di degustatori della domenica, gente che confonde il Nero d’Avola con l’Amarone, il Trebbiano col Falerno, il granato col rubino, capace di attribuire un retrogusto di vaniglia (tipico del rovere) a rossi che conoscono solo i silos metallici. Per non parlare dell’accoppiamento con i cibi, il pesce, le carni. E’ vero che con i vini ormai è come con la Nazionale: ognuno ha la sua formazione, ma si rischia di rovinarsi con le proprie mani senza un minimo di conoscenza, almeno bignamina.
Come se avesse letto nel pensiero di milioni di persone (alcune delle quali partecipano ai suoi corsi, ma “solo per rimorchiare”) Adua Villa (proposta da tv, radio, quotidiani e periodici), musa, vestale, storica della materia, con intenti divulgativi, ha acconciato una sorta di “bibbia” da tenere sempre a portata di mano per consultarla prima di darsi appuntamento all’enoteca, di varcare la soglia di una cantina o di un ristorante famoso, o soltanto di tentare di decodificare un’etichetta o usare il decanter.
“Una sommelier per amica” (Come scegliere i vini migliori senza svenarti per ogni occasione), Editore Sonzogno (di Marsilio Editori, Venezia), pp. 142, € 15 si può leggere come un trattato sul tema ma anche come saggio storico, essendo intrecciata filologicamente la storia - anche economica e delle casate - dell’uomo con quella del vino in un nodo gordiano inestricabile pregno di pathos e di infinite implicazioni e affascinanti sfaccettature.
Eccellenza della materia, spalmata ormai in ogni meridiano e parallelo del pianeta, Adua Villa prende per mano il colto e soprattutto l’inclita e lo introduce in un mondo remoto e perciò moderno, sospeso fra realtà e fiaba, con i suoi miti e i riti, spalancandogli le sette porte della conoscenza di una disciplina che non tollera approssimazioni e ogni millanteria la considera mera “bestemmia”. Deliziose le pagine in cui si sofferma con un sorriso malizioso sui nomi di vitigni (di autoctoni in Italia ne contiamo sui 350) dal doppio senso: dal “Durello” (Veneto, nome forse dovuto alla consistenza degli acini), alla “Passerina” (Abruzzo e Marche, magari a grappoli mignon). Ma anche quelle in cui Adua svela i vini in rapporto all’oroscopo: all’Ariete si addice il Negroamaro, allo Scorpione il Barolo, ai Pesci il Pinot Nero.
Non sono solo “i consigli di una grande esperta capace di introdurci al mondo dei vini con eleganza, allegria e semplicità” (Franco M. Ricci, Presidente della Worldwide Sommelier Association) ma, pagina dopo pagina, è un delizioso rincorrersi di scoperte (sapevate che esiste persino il museo del cavatappi?), illuminazioni, background che, è il caso di dire, fa girare la testa. Perché il vino, come diceva Borges del tango, è un modo di stare al mondo, una filosofia di vita, una password per aprirsi un varco nel tempo e capire uomini, popoli, culture, di ieri, oggi e domani. Dai riti dionisiaci e bacchici ai saturali, sino al celebre dipinto di Caravaggio e Mozart goloso di Merzemino (come il suo librettista Lorenzo Da Ponte), “associato al gusto del vivere, all’amore, al piacere dei sensi”, il vino spiega l’uomo e l’umanità più di ogni altra “chiave” che si voglia adoperare. Tant’è che mentre leggi ripensi alla famosa canzone di De Andrè, in cui i bevitori che danno il loro denaro all’oste, gli chiedono: “Ma tu cosa ti compri di migliore?”.
I tempi cambiano: nel XXI secolo le enoteche sono le nuove chiese, le cantine i santuari dove avvengono riti curiosi, per iniziati, certi ristoranti sono considerati alla stregua di templi pagani o buddisti. Gli enologi i profeti del III millennio, gli assaggiatori più autorevoli del quotidiano di riferimento, i sommelier guru della modernità. Oggi che il vino è stato semanticamente affollato (“L’amore è una cosa meravigliosa, il vino lo è di più!”), i rapporti sociali e interpersonali sono decisi anche dal saper distinguere un bicchiere per lo spumante da quello per un Barolo da “riserva”; conoscere il significato di termini come blend, tannico, strutturato, perlàge, decanter, novello, ecc. apre un sacco di porte e opportunità.
La saccenteria italica (nel nostro dna, con le librerie di “dorsi”), lo sfoggio di cultura posticcia può giocare brutti scherzi a falangi macedoni di degustatori della domenica, gente che confonde il Nero d’Avola con l’Amarone, il Trebbiano col Falerno, il granato col rubino, capace di attribuire un retrogusto di vaniglia (tipico del rovere) a rossi che conoscono solo i silos metallici. Per non parlare dell’accoppiamento con i cibi, il pesce, le carni. E’ vero che con i vini ormai è come con la Nazionale: ognuno ha la sua formazione, ma si rischia di rovinarsi con le proprie mani senza un minimo di conoscenza, almeno bignamina.
Come se avesse letto nel pensiero di milioni di persone (alcune delle quali partecipano ai suoi corsi, ma “solo per rimorchiare”) Adua Villa (proposta da tv, radio, quotidiani e periodici), musa, vestale, storica della materia, con intenti divulgativi, ha acconciato una sorta di “bibbia” da tenere sempre a portata di mano per consultarla prima di darsi appuntamento all’enoteca, di varcare la soglia di una cantina o di un ristorante famoso, o soltanto di tentare di decodificare un’etichetta o usare il decanter.
“Una sommelier per amica” (Come scegliere i vini migliori senza svenarti per ogni occasione), Editore Sonzogno (di Marsilio Editori, Venezia), pp. 142, € 15 si può leggere come un trattato sul tema ma anche come saggio storico, essendo intrecciata filologicamente la storia - anche economica e delle casate - dell’uomo con quella del vino in un nodo gordiano inestricabile pregno di pathos e di infinite implicazioni e affascinanti sfaccettature.
Eccellenza della materia, spalmata ormai in ogni meridiano e parallelo del pianeta, Adua Villa prende per mano il colto e soprattutto l’inclita e lo introduce in un mondo remoto e perciò moderno, sospeso fra realtà e fiaba, con i suoi miti e i riti, spalancandogli le sette porte della conoscenza di una disciplina che non tollera approssimazioni e ogni millanteria la considera mera “bestemmia”. Deliziose le pagine in cui si sofferma con un sorriso malizioso sui nomi di vitigni (di autoctoni in Italia ne contiamo sui 350) dal doppio senso: dal “Durello” (Veneto, nome forse dovuto alla consistenza degli acini), alla “Passerina” (Abruzzo e Marche, magari a grappoli mignon). Ma anche quelle in cui Adua svela i vini in rapporto all’oroscopo: all’Ariete si addice il Negroamaro, allo Scorpione il Barolo, ai Pesci il Pinot Nero.
Non sono solo “i consigli di una grande esperta capace di introdurci al mondo dei vini con eleganza, allegria e semplicità” (Franco M. Ricci, Presidente della Worldwide Sommelier Association) ma, pagina dopo pagina, è un delizioso rincorrersi di scoperte (sapevate che esiste persino il museo del cavatappi?), illuminazioni, background che, è il caso di dire, fa girare la testa. Perché il vino, come diceva Borges del tango, è un modo di stare al mondo, una filosofia di vita, una password per aprirsi un varco nel tempo e capire uomini, popoli, culture, di ieri, oggi e domani. Dai riti dionisiaci e bacchici ai saturali, sino al celebre dipinto di Caravaggio e Mozart goloso di Merzemino (come il suo librettista Lorenzo Da Ponte), “associato al gusto del vivere, all’amore, al piacere dei sensi”, il vino spiega l’uomo e l’umanità più di ogni altra “chiave” che si voglia adoperare. Tant’è che mentre leggi ripensi alla famosa canzone di De Andrè, in cui i bevitori che danno il loro denaro all’oste, gli chiedono: “Ma tu cosa ti compri di migliore?”.