Insegnare dialetto a scuola? No grazie!
di Vittorio Polito - «Insegnare il dialetto a scuola? Mi pare una sciocchezza colossale». Non usa mezzi termini l’assessore alla scuola Marco Raccagna di Imola nel dire ciò che pensa dell’idea leghista di introdurre in classe lo studio del dialetto. Per l’amministratore comunale non è in discussione il fatto che il dialetto rappresenti un aspetto della cultura popolare da salvaguardare, «ma altra cosa è introdurlo nelle scuole per legge. È fondamentale legare le scuole al proprio territorio e tener viva la memoria delle tradizioni locali».
Sulla stessa lunghezza d’onda è il parere di altro amministratore siciliano, Alessandro Patanè, «Il dialetto non è certo una lingua di cui vergognarsi, ma neanche da insegnare a scuola. Piuttosto prevediamo lezioni di educazione. Le buone maniere, quelle sì che stanno davvero scomparendo». Mentre un dirigente scolastico commenta: L’importante, a mio parere, è comunque non ridurre il numero di ore da dedicare alle discipline letterarie per inserire un’altra materia. Certo, una maggiore consapevolezza dell’interazione tra parlata spontanea e italiano può essere d’aiuto. Ma che il dialetto possa servire realmente a imparare la lingua madre mi pare difficile». Davide Gervasi de “Il Giorno di Legnano” scrive senza mezzi termini che «L’idea suscita scarso entusiasmo: Abbiamo una grande lingua, l’italiano, che viene spesso insegnata poco e male».
Al di là di quanto sopra, “Il Giornale di Letterefilosofia.it” ha chiesto a qualificati linguisti, in seguito alla proposta della Lega di qualche anno fa di insegnare il dialetto nelle scuole, attraverso un’intervista di Silvia Micheli e Violetta Torregiani, il loro parere sull’argomento ottenendo opinioni quasi uniformi sulla negatività di tale proposta. I docenti interpellati, tutti dell’Università “La Sapienza” di Roma, sono: Luca Serianni docente di “Linguistica italiana” e “Metodi e problemi di storia della lingua italiana”; Matteo Motolese, docente di “Questioni di storia della lingua italiana” e Ugo Vignuzzi docente di “Dialettologia italiana e didattica dell’italiano e sociolinguistica”.
Le risposte sono state le seguenti:
Prof. Luca Serianni: «L’estate scorsa, la Lega, per ragioni di visibilità, aveva proposto l’insegnamento dei dialetti nelle scuole, ma poi l’ipotesi era decaduta. Ovviamente si tratta di una strada non percorribile: si può insegnare una lingua, ma non un dialetto, che non ha alcuna omogeneità. Persino in regioni come il Veneto e la Campania, regioni con una forte connotazione dialettale, non ce n’è uno che si sia imposto. Così accade nelle grandi città, si pensi a Roma o a Milano, dove ormai i dialetti non esistono quasi più: esistono solo un accento romano e uno milanese. Inoltre non bisogna dimenticare i limiti intrinseci nel dialetto: il poeta Raffaello Baldini diceva che “in dialetto si può parlare con Dio, non si può parlare di Dio”: un ambito quindi, solo familiare e affettivo, non adatto per contenuti di un certo livello intellettuale. A scuola si dovrebbe dare più importanza alla lingua in sé: soprattutto per dominarne i vari registri».
Prof. Matteo Motolese: «In linea generale, un’attenzione verso i dialetti può essere anche positiva. Ma ogni proposta di integrazione del programma scolastico deve tenere conto del fatto che il numero di ore da dedicare alle materie letterarie non è infinito. Se si aggiunge qualcosa, bisogna avere chiaro dove si toglie. Personalmente troverei sbagliato ridurre le ore di italiano per inserire un’ora di dialetto; sarebbe un passo indietro invece che un passo avanti, da tanti punti di vista. Non è solo una questione di lingua, ma più ampiamente di orizzonte, di cultura. Certo, in alcune zone, una maggiore consapevolezza dell’interazione tra parlata spontanea e italiano può essere d’aiuto. Ma che il dialetto possa essere realmente d’aiuto per imparare meglio l’italiano mi pare difficile. In ogni caso, non mi sembra che l’attenzione attuale nei confronti dei dialetti nasca da un’esigenza pedagogica; mi pare più un’esigenza politica».
Prof. Ugo Vignuzzi: «Monaci diceva che “bisogna partire da una buona conoscenza del dialetto per arrivare alla lingua”. In realtà non è possibile perché oggi i ragazzi non parlano più il dialetto ma, al massimo, una sorta di “giovanilese”. È necessario invece portare alla parità tutti gli italofoni per permettere loro di esprimersi e di comprendere tutti i testi scritti. Sarebbe difficile studiare il dialetto in chiave linguistica perché siamo in un contesto di neodialettalità (definizione di Mengaldo) basti pensare a De André, al grammelot di Fo (o al De Filippo della traduzione della “Tempesta” in napoletano del ’600), il dialetto non è usato perché è parlato ma hanno scritto nel dialetto del passato, che hanno studiato sui libri. Si può e si deve invece utilizzare la cultura locale per comprendere come si sia creato il contatto dialetto-lingua nazionale e quali siano i rapporti che intercorrono tra le varietà dei dialetti.
L’insegnamento deve dare la capacità di esprimersi diversamente tra scritto e parlato. La lingua italiana è umanistica, aristocratica e intellettuale. Bisognerebbe dare a tutti gli strati sociali il possesso di una lingua italiana alta; il mio sogno è che tutti imparino ad utilizzare il congiuntivo in modo corretto!».
Pertanto, alla luce di quanto sopra, il dialetto nelle scuole è quasi impossibile da insegnare per una svariata serie di motivi: mancanza di conoscenza dei dialetti da parte dei docenti, mancanza delle ore disponibili, difficoltà di insegnare i dialetti a studenti, ormai di varie etnie, l’assoluta mancanza di grammatiche valide per tutti i dialetti del territorio nazionale (pensate oltre 8 mila Comuni con un numero infinito di dialetti, come di può notare nella immagine), per cui coloro che si ostinano a prospettare l’insegnamento dei dialetti nelle scuole, consigliano una strada sbagliata, notevolmente accidentata e difficilissima da percorrere.
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Bari
Ancora 'sta demenzialità (perché affermazione da dementi si tratta, a prescindere dal titolo di studio) dell'italiano come lingua «intellettuale» (perché, è noto, ci sono lingue da geni e lingue da asini) e «aristocratica» (!). Perché pubblicare (ed appoggiare) affermazioni che non fanno affatto onore alla vostra intelligenza?
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