di FRANCESCO GRECO - I nomi di Caterina Piretti e Paola Pitti (ma anche di Franco Dani, Mimmo Billi, Marina Coffa, Franco Gasparri, ecc.) non dicono niente alle smagate ragazze d’oggi che alla fermata della metro smanettano con lo smartphone mentre vanno a farsi un altro tattoo. Se però si spiega che sono attrici di fotoromanzi della casa editrice “Lancio”, molto popolari nei mitici anni 70/80, che sono sorelle e che la prima aveva il nome d’arte di Katiuscia e il vero nome della seconda è Paola Piretti, le ragazze di ieri avranno un tuffo al cuore rivedendosi adolescenti, brufolose, zatteroni, borse di Tolfa correre in edicola ogni settimana per soffrire, per transfert, con i primi innamoramenti delle loro eroine.
C’è stato un periodo in cui in ogni casa italiana c’era un fotoromanzo, che le lettrici si passavano l’un l’altra e le due erano delle vere dive, amate, assediate dai fan, che ricevevano dozzine di lettere al giorno. La prima aveva l’aria sbarazzina e trasgressiva, “normale, né bella né brutta” (incarnava il protagonismo incalzante della donna, la ribellione studentesca post-68 e del Movimento 77); più posata, con lunghissimi, morbidi capelli biondo cenere da Venere botticelliana la seconda. Fra le sorelle c’era e c’è un tenero rapporto di affettuosa complicità che molto ha aiutato la più piccola quando la vita l’ha sottoposta a prove durissime.
Poi sarebbero venuti i talent e il Grande Fratello portando un divismo straccione, posticcio, senza’anima. Ora Katiuscia (che dava il nome al fotoromanzo che interpretava) ha messo giù la propria autobiografia, premettendo: “Penso di aver avuto successo. Penso anche di essere stata famosa…”. E pensa bene. “Katiuscia, la diva ribelle” (i diari segreti della diva dei fotoromanzi che scosse gli anni ‘70), Giulio Perrone Editore, Roma 2014, pp. 180, € 16 (collana “Biotòn”, con inserto fotografico), oltre a un crudo spaccato antropologico di quegli anni è un apologo sul successo, il mondo dorato dello show-business, di quelle storie intriganti, sfaccettate, ascesa e declino, tormenti e passioni, amori sfortunati e smarrimenti, cadute e ritorni che a Hollywood piacciono sin dai tempi del b/n, le commedie di Elia Kazan, Fritz Lang, Howard Hawks.
La storia dell’attrice potrebbe offrire un soggetto a quel cinema psicologico anni ’50 dove le dive fragili e nevrotiche (da Liz Taylor a Marilyn Monroe, da Grace Kelly a Jane Russell) sono sballottate dal fato, sopraffatte dalla vita, ma riescono alla fine a recuperare per miracolo una loro forza interiore e ritrovare la via maestra (zen) per non affogare nei mari di un mondo confuso dando un senso alle parole e alla loro ispida parabola.
La password di un’autobiografia “movimentata”, perché “mi sono successe tante cose: divertentissime e tragiche, allegre e pericolose… ho dilapidato una fortuna, ho sperperato milioni in regali e case…”, è la psicologia del successo in rapporto alla popolarità, ciò che accade quando i riflettori si illanguidiscono lasciando un vuoto senza eco, una tristezza sconfinata e la vita declina verso un’attesa (accanto al telefono) per un altro giro di giostra. L’inquietudine interiore diviene allora compagna dei giorni interminabili, l’autostima crolla, irrompono le crisi misitche (Katiuscia si aiutò col buddismo perché “invita ad aprirsi al mondo”).
Se si è fragili, quello sbandamento lo si combatte con i surrogati dell’affetto che non c’è, e allora si entra in una spirale da cui poi è difficile uscire: Katiuscia è stata 5 anni in una comunità di recupero a Trapani, ironia della sorte la città dov’è nata, di madre albanese molto dura, sia perché di origine contadina, ma anche perché Kim Jonit ha dovuto allevare da sola o quasi i 5 figli avuti da un marito assente per lavoro.
La diva ha vissuto un inferno che avrebbe schiantato chiunque, per cui il giorno in cui sentì di nuovo il sole “bruciare la pelle” provò l’emozione di chi rinasce a nuova vita. Forse in quell’istante capì che per affrontarlo meglio doveva portarlo fuori di sè, condividerlo. Descrive il calvario con un realismo di un nitore che commuove, in certi snodi lascia senza parole.
Gli inizi sono casuali: il regista Alberto Lattuada cerca una bimba per il film “Il mafioso” (interpretato da Alberto Sordi), la vede in braccio alla madre, le fa un provino. Entra così dalla porta principale nel cinema. Il resto vien da solo. La chiamano per gli spot di “Carosello”: è l’Italia ingenua e lavoratrice della brillantina “Linetti”, “Ava come lava” di Calimero pulcino nero, il Gatto Silvestro di “Oh, no: su De Rica non si può!” e del “Cynar” di Ernesto Calindri “contro il logorio della vita moderna”.
Poi arrivano i fotoromanzi “Lancio” (scoprirà di aver lavorato “a nero”), entra in tutte le case e consacrano Caterina la più amata dalle italiane. Le storie sono semplici, didascaliche: i primi turbamenti, amori contrastati, conflitti generazionali, ecc. Il femminismo sta per far sentire il suo ruggito, e anche le ragazze dei fotoromanzi vogliono la loro libertà, l’emancipazione, i diritti: vivere in pieno i loro sentimenti.
Forse è qui, nell’aver intercettato (l’idea è di Filippo Ciolfi) un momento storico con le sue pulsioni, passioni, fermenti, il successo del genere. Ma per Katiuscia diventa una trappola. Il fotoromanzo declina negli anni di piombo, i tempi scolorano in un realismo tragico, anche con l’ascesa della tv commerciale (che inonda l’Italia di spazzatura) che riempie le mattinate delle italiane con i salotti della fuffa gossippara, i quiz e un divismo da macelleria (Bongiorno e la D’Urso le icone). Così le dive nazionalpopolari, acqua e sapone, sono messe via. Il cinismo prende il posto della levità. L’attesa di una chiamata si dilata, pregna di nevrosi.
Forse il successo precoce, quando la personalità è ancora in formazione, è stato fatale per Katiuscia. Forse si è fatta prendere troppo e non ha pensato a costruirsi un’alternativa di vita. Lo farà dopo, aprendo un negozio per vendere le sue ceramiche che in comunità ha imparato a dipingere. Fatto sta che la sua vita si trasfigura in una sofferenza dello spirito, con sfaccettature dense di sofferenza e solitudine, baratri che Caterina colma con i paradisi artificiali. Un fatto positivo però c’è e si rivelerà decisivo per la rinascita: gli amici che si stravaccavano sui cuscini delle sue case non l’hanno abbandonata. La community che ha condiviso tutto non si è mai eclissata. Perfino una ex giornalista che la leggeva se ne ricorda e vorrebbe affittarle gratis il negozio.
Una favola moderna, amara, da tragedia shakespeariana, ma a lieto fine (soggetto buono per un fotoromanzo!), con una morale: restate coi piedi per terra, non fatevi dominare dai sogni, non fatene i vostri padroni; continuate pure a coltivarli ma con un che di razionalità e di disincantata leggerezza.
C’è stato un periodo in cui in ogni casa italiana c’era un fotoromanzo, che le lettrici si passavano l’un l’altra e le due erano delle vere dive, amate, assediate dai fan, che ricevevano dozzine di lettere al giorno. La prima aveva l’aria sbarazzina e trasgressiva, “normale, né bella né brutta” (incarnava il protagonismo incalzante della donna, la ribellione studentesca post-68 e del Movimento 77); più posata, con lunghissimi, morbidi capelli biondo cenere da Venere botticelliana la seconda. Fra le sorelle c’era e c’è un tenero rapporto di affettuosa complicità che molto ha aiutato la più piccola quando la vita l’ha sottoposta a prove durissime.
Poi sarebbero venuti i talent e il Grande Fratello portando un divismo straccione, posticcio, senza’anima. Ora Katiuscia (che dava il nome al fotoromanzo che interpretava) ha messo giù la propria autobiografia, premettendo: “Penso di aver avuto successo. Penso anche di essere stata famosa…”. E pensa bene. “Katiuscia, la diva ribelle” (i diari segreti della diva dei fotoromanzi che scosse gli anni ‘70), Giulio Perrone Editore, Roma 2014, pp. 180, € 16 (collana “Biotòn”, con inserto fotografico), oltre a un crudo spaccato antropologico di quegli anni è un apologo sul successo, il mondo dorato dello show-business, di quelle storie intriganti, sfaccettate, ascesa e declino, tormenti e passioni, amori sfortunati e smarrimenti, cadute e ritorni che a Hollywood piacciono sin dai tempi del b/n, le commedie di Elia Kazan, Fritz Lang, Howard Hawks.
La storia dell’attrice potrebbe offrire un soggetto a quel cinema psicologico anni ’50 dove le dive fragili e nevrotiche (da Liz Taylor a Marilyn Monroe, da Grace Kelly a Jane Russell) sono sballottate dal fato, sopraffatte dalla vita, ma riescono alla fine a recuperare per miracolo una loro forza interiore e ritrovare la via maestra (zen) per non affogare nei mari di un mondo confuso dando un senso alle parole e alla loro ispida parabola.
La password di un’autobiografia “movimentata”, perché “mi sono successe tante cose: divertentissime e tragiche, allegre e pericolose… ho dilapidato una fortuna, ho sperperato milioni in regali e case…”, è la psicologia del successo in rapporto alla popolarità, ciò che accade quando i riflettori si illanguidiscono lasciando un vuoto senza eco, una tristezza sconfinata e la vita declina verso un’attesa (accanto al telefono) per un altro giro di giostra. L’inquietudine interiore diviene allora compagna dei giorni interminabili, l’autostima crolla, irrompono le crisi misitche (Katiuscia si aiutò col buddismo perché “invita ad aprirsi al mondo”).
Se si è fragili, quello sbandamento lo si combatte con i surrogati dell’affetto che non c’è, e allora si entra in una spirale da cui poi è difficile uscire: Katiuscia è stata 5 anni in una comunità di recupero a Trapani, ironia della sorte la città dov’è nata, di madre albanese molto dura, sia perché di origine contadina, ma anche perché Kim Jonit ha dovuto allevare da sola o quasi i 5 figli avuti da un marito assente per lavoro.
La diva ha vissuto un inferno che avrebbe schiantato chiunque, per cui il giorno in cui sentì di nuovo il sole “bruciare la pelle” provò l’emozione di chi rinasce a nuova vita. Forse in quell’istante capì che per affrontarlo meglio doveva portarlo fuori di sè, condividerlo. Descrive il calvario con un realismo di un nitore che commuove, in certi snodi lascia senza parole.
Gli inizi sono casuali: il regista Alberto Lattuada cerca una bimba per il film “Il mafioso” (interpretato da Alberto Sordi), la vede in braccio alla madre, le fa un provino. Entra così dalla porta principale nel cinema. Il resto vien da solo. La chiamano per gli spot di “Carosello”: è l’Italia ingenua e lavoratrice della brillantina “Linetti”, “Ava come lava” di Calimero pulcino nero, il Gatto Silvestro di “Oh, no: su De Rica non si può!” e del “Cynar” di Ernesto Calindri “contro il logorio della vita moderna”.
Poi arrivano i fotoromanzi “Lancio” (scoprirà di aver lavorato “a nero”), entra in tutte le case e consacrano Caterina la più amata dalle italiane. Le storie sono semplici, didascaliche: i primi turbamenti, amori contrastati, conflitti generazionali, ecc. Il femminismo sta per far sentire il suo ruggito, e anche le ragazze dei fotoromanzi vogliono la loro libertà, l’emancipazione, i diritti: vivere in pieno i loro sentimenti.
Forse è qui, nell’aver intercettato (l’idea è di Filippo Ciolfi) un momento storico con le sue pulsioni, passioni, fermenti, il successo del genere. Ma per Katiuscia diventa una trappola. Il fotoromanzo declina negli anni di piombo, i tempi scolorano in un realismo tragico, anche con l’ascesa della tv commerciale (che inonda l’Italia di spazzatura) che riempie le mattinate delle italiane con i salotti della fuffa gossippara, i quiz e un divismo da macelleria (Bongiorno e la D’Urso le icone). Così le dive nazionalpopolari, acqua e sapone, sono messe via. Il cinismo prende il posto della levità. L’attesa di una chiamata si dilata, pregna di nevrosi.
Forse il successo precoce, quando la personalità è ancora in formazione, è stato fatale per Katiuscia. Forse si è fatta prendere troppo e non ha pensato a costruirsi un’alternativa di vita. Lo farà dopo, aprendo un negozio per vendere le sue ceramiche che in comunità ha imparato a dipingere. Fatto sta che la sua vita si trasfigura in una sofferenza dello spirito, con sfaccettature dense di sofferenza e solitudine, baratri che Caterina colma con i paradisi artificiali. Un fatto positivo però c’è e si rivelerà decisivo per la rinascita: gli amici che si stravaccavano sui cuscini delle sue case non l’hanno abbandonata. La community che ha condiviso tutto non si è mai eclissata. Perfino una ex giornalista che la leggeva se ne ricorda e vorrebbe affittarle gratis il negozio.
Una favola moderna, amara, da tragedia shakespeariana, ma a lieto fine (soggetto buono per un fotoromanzo!), con una morale: restate coi piedi per terra, non fatevi dominare dai sogni, non fatene i vostri padroni; continuate pure a coltivarli ma con un che di razionalità e di disincantata leggerezza.