di Francesco Greco. COPERTINO (Le) - “Addio mondo, Dio arrivo!”. E’ il 18 settembre 1663 “quando un quarto a mezzanotte, il mio volto si illuminò e trapassò… l’ultimo volo fu quello dell’anima mentre il corpo invece si acquietava e trovava riposo…”. Si chiudeva così la parabola di frà Giuseppe da Copertino. Era nato il 17 giugno 1603, nominato diacono il 20 marzo 1627, sacerdote il 18 marzo 1628.
Giunti all’ultima pagina, ci si chiede come mai “il santo dei voli” (“si librava nell’aria come una libellula”) amato dal laico Carmelo Bene - forse ci leggeva l’allegoria di una terra e i suoi uomini - non abbia sinora avuto la fortuna e la popolarità diffusa di San Francesco d’Assisi e dello stesso Padre Pio. Perché non è un’icona cool della Chiesa universale e del territorio e il monastero della Grottella resta appartato, non è un luogo di culto come S. Giovanni Rotondo o Fatima.
Eppure del primo trasfigura la passione militante per i poveri e l’idea di povertà come password per capire il mondo e l’uomo e del secondo raggruma il carisma e il rigore nella coscienza di una mission totale (“essere felice solo se l’altro è felice”), vissuta con trasporto, senza esitazioni (“Dio è in tutto ciò che noi osserviamo… nel fratello, nel padre, nella madre, nel povero e nell’afflitto, ma anche in tutto il suo creato, in questa natura meravigliosa, come possiamo non donargli neanche un sorriso?”.
Se è questione di marketing, “Il segreto del francescano volante”, di Giuseppe Mariano, edizioni Negroamaro, Nardò, Lecce, pp.124, € 15 (21 capitoli incalzanti e pregni, pluripremiato in ogni parte d’Italia: da Firenze a Licata, da Savona a Gorizia, Torino, ecc.), contribuirà a rendere Padre Giuseppe Maria Desa un po’ più popolare, anche perché la sua santità si esplica in modo originale: con una continua levitazione, un distacco dalla debolezza e l’affanno terreno per innalzare lo spirito verso i cieli. I fratelli con cui condivide il percorso di sottrazione al mondo ma non alle sue pene e afflizioni, lo vedono in estasi sul tetto della chiesa, “due metri sopra l’altare”, “un mandorlo nella campagna”, ecc.
Ma fu la stessa Chiesa a depotenziarlo (“la santità o il male a far spiccare i voli”?): forse incapace di gestire il fenomeno, per non sovrapporlo al poverello d’Assisi e allo sposo di Maria. Lo fece peregrinare da un convento all’altro, e ovunque andasse (“non potevo parlare con nessuno”, si flagellava e praticava il digiuno, “aveva già un posto prenotato in Paradiso”) gente d’ogni sorta si faceva sotto la cella per assistere alle levitazioni (“quando udiva il suono di una campana, o ascoltava musica sacra, il nome di Dio, della Vergine Maria o di un Santo”, “gli porsero l’ostiario e si sollevò un metro da terra”), chiedere miracoli e benedizioni.
Mariano ha nel dna il romanzo storico. Viene da studi classici, ha una passione per la storia, fruga negli anfratti più segreti e ricostruisce la parabola affrescandola con tinte gialle, continue virate nel thriller, nel gotic, tra sogni e fantasmi, citazione sottintesa del “Nome della Rosa”. Jacques de Molay è figlio di Catari e si reincarna tre secoli dopo (il “Gran Maestro” era salito al rogo il 18 marzo 1314) da bibliotecario dell’archivio segreto vaticano, nel Seicento di Giordano Bruno, Vanini e Tafuri (il “Socrate di Soleto”), delle eresie e i roghi, il potere temporale e il braccio secolare della Chiesa, processi grotteschi: una “guerra civile” all’insegna dell’intrigo e del sangue, della sete di potere e la bramosia di ricchezze sfrenate, tra istanze moderne e ortodossia, lotte fra casate (i Farnese portano padre Joseph), Papi in carriera, innovatori e conservatori.
Su ordine di Urbano VIII indaga sui Templari (scopriamo che lo era anche Federico II e che “la loro firma” era la Madonna nera) blasfemi, i Catari estremisti nella fede, le reliquie del Cristo sparse nel mondo (“le tracce di tutto ciò che era appartenuto al Cristo”), nella convinzione che se lo spirito è debole, corrotto dal relativismo, la materia può supportarlo, forse salvarlo (“potevano illuminare il mondo, riportare la luce…”).
Una sorda, sordida lotta di potere che Mariano descrive con abilità e maestria (compare anche una Crociata fratricida di cui poco si sa: 1208, Innocenzo III, “contri i catari, i puri”, e apprendiamo che al concilio di Clermont (1095), Urbano II aveva incitato alla “guerra all’infedele”. Da libro nero della Chiesa (come i testi del padre di de Molay sugli “scandali degli uomini legati alla Chiesa. Papi, cardinali, i loro affari, le loro donne, i loro figli, gli incesti, le congiure, gli assassini”). Si scopre anche la “Veronica”, un’altra Sindone.
Della durezza dei Domenicani, gli agenti segreti al servizio di Cristo, si sapeva. Come dello sterminio in un notte dei Templari (“vietato qualsiasi contatto con le donne”, “pratiche sataniche… idolatria… sodomia…”) invisi a Roma per la loro potenza e denaro (“bravi a gestire le proprie ricchezze”: prestavano a nobili e re). Tesoro che sparirà la notte fra 12 e 13 ottobre 1307 su 12 carri carichi di fieno. Troppo potenti, i Templari furono annientati dagli interessi coincidenti di Clemente VIII e Filippo il Bello, Imperatore di Francia.
L’icona più forte, ovvio, è il Sacro Graal, il calice dell’ultima cena usato da Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue di Cristo in croce: è in Vaticano? In Puglia (Castel del Monte)? A Loreto? L’Aquila (Celestino V, alias Pietro Angeleri, che regnò 5 mesi e 8 giorni e ne voleva fare la nuova Roma (quella del suo tempo troppo “corrotta”, “la parola povertà non si addiceva al ricco clero… la aborriva”, “dove sono gli ideali di amore e povertà?”, “uccide, condanna, tortura nel nome di Cristo, in realtà solo per ingrandire il proprio potere”) e un’altra Gerusalemme (la vera era in mani musulmane). L’ha nascosto Federico di Svevia che, pare, coltivava lo stesso sogno? E’ a Bari nella chiesa di San Nicola di Myra? E il “francescano volante” (“salute cagionevole… studi interrotti… sebbene non fossi un fenomeno sui libri…”, responsabilità di famiglia dopo l’improvvisa morte del padre: la vocazione nacque dalla visione della Madonna col Bambino) cosa ne sa, poiché legge il futuro?
Tra un volo, un’estasi e un miracolo (“il nodulo maligno che oltraggiava la giovane gola era scomparso…”) e il “forte odore di violette”, la Grottella e Assisi (il Sant’Ufficio, di Napoli e Roma, prende di mira il frate, che accetta con rassegnazione, “la nostra esistenza è solo un passaggio”) dà continui input all’inquieto Jacques (“il mio animo aveva perfino dubitato dell’esistenza di Dio…”), che ritroverà il fratello Arcangelo (divenuto un Templare, “voleva far conoscere al mondo i misfatti della Chiesa”) e gli illuminerà gli aspetti oscuri del mistero. Il Sacro Graal (che ha fatto restare incorrotti per mesi i martiri di Otranto) dovrebbe finalmente far uscire la Chiesa dalle secche dell’eresia e del conflitto tutti contro tutti (“la paura di perdere il primato spirituale dell’interpretazione delle parole del Cristo”), le vendette, i misteri, i veleni, i pugnali, le architetture del demonio (“doveva chiedere scusa al mondo per i suoi peccati, per aver interpretato a proprio piacimento le parole di Cristo”).
Mariano si conferma abile nell’intreccio, nel plot (suo è anche “Otranto, l’alba del 1480”), padroneggia con sapienza l’intarsio fra elementi reali e fantastici, il puzzle del mito e la leggenda, i topoi che hanno riscontri storici e le leggende dell’affabulazione popolare. Denominatore comune è anche stavolta il paesaggio, i profumi, gli odori che contaminano e ubriacano: la natura vista quasi in senso panteista, sacra, trasfigurata in un grembo materno (ulivi, gelsi mori, lecci, fichi). Ma pure (come per Idrusa) l’amore muliebre (per Natalia, appassionata di incunaboli) e filiale (Francesco, poi Elena, poi…).
Mariano ora ha ripreso un saggio del 2002 sulla criminalità in Terra d’Otranto, consultato da chi scrive sulla materia per autorevolezza analitica.
Giunti all’ultima pagina, ci si chiede come mai “il santo dei voli” (“si librava nell’aria come una libellula”) amato dal laico Carmelo Bene - forse ci leggeva l’allegoria di una terra e i suoi uomini - non abbia sinora avuto la fortuna e la popolarità diffusa di San Francesco d’Assisi e dello stesso Padre Pio. Perché non è un’icona cool della Chiesa universale e del territorio e il monastero della Grottella resta appartato, non è un luogo di culto come S. Giovanni Rotondo o Fatima.
Eppure del primo trasfigura la passione militante per i poveri e l’idea di povertà come password per capire il mondo e l’uomo e del secondo raggruma il carisma e il rigore nella coscienza di una mission totale (“essere felice solo se l’altro è felice”), vissuta con trasporto, senza esitazioni (“Dio è in tutto ciò che noi osserviamo… nel fratello, nel padre, nella madre, nel povero e nell’afflitto, ma anche in tutto il suo creato, in questa natura meravigliosa, come possiamo non donargli neanche un sorriso?”.
Se è questione di marketing, “Il segreto del francescano volante”, di Giuseppe Mariano, edizioni Negroamaro, Nardò, Lecce, pp.124, € 15 (21 capitoli incalzanti e pregni, pluripremiato in ogni parte d’Italia: da Firenze a Licata, da Savona a Gorizia, Torino, ecc.), contribuirà a rendere Padre Giuseppe Maria Desa un po’ più popolare, anche perché la sua santità si esplica in modo originale: con una continua levitazione, un distacco dalla debolezza e l’affanno terreno per innalzare lo spirito verso i cieli. I fratelli con cui condivide il percorso di sottrazione al mondo ma non alle sue pene e afflizioni, lo vedono in estasi sul tetto della chiesa, “due metri sopra l’altare”, “un mandorlo nella campagna”, ecc.
Ma fu la stessa Chiesa a depotenziarlo (“la santità o il male a far spiccare i voli”?): forse incapace di gestire il fenomeno, per non sovrapporlo al poverello d’Assisi e allo sposo di Maria. Lo fece peregrinare da un convento all’altro, e ovunque andasse (“non potevo parlare con nessuno”, si flagellava e praticava il digiuno, “aveva già un posto prenotato in Paradiso”) gente d’ogni sorta si faceva sotto la cella per assistere alle levitazioni (“quando udiva il suono di una campana, o ascoltava musica sacra, il nome di Dio, della Vergine Maria o di un Santo”, “gli porsero l’ostiario e si sollevò un metro da terra”), chiedere miracoli e benedizioni.
Mariano ha nel dna il romanzo storico. Viene da studi classici, ha una passione per la storia, fruga negli anfratti più segreti e ricostruisce la parabola affrescandola con tinte gialle, continue virate nel thriller, nel gotic, tra sogni e fantasmi, citazione sottintesa del “Nome della Rosa”. Jacques de Molay è figlio di Catari e si reincarna tre secoli dopo (il “Gran Maestro” era salito al rogo il 18 marzo 1314) da bibliotecario dell’archivio segreto vaticano, nel Seicento di Giordano Bruno, Vanini e Tafuri (il “Socrate di Soleto”), delle eresie e i roghi, il potere temporale e il braccio secolare della Chiesa, processi grotteschi: una “guerra civile” all’insegna dell’intrigo e del sangue, della sete di potere e la bramosia di ricchezze sfrenate, tra istanze moderne e ortodossia, lotte fra casate (i Farnese portano padre Joseph), Papi in carriera, innovatori e conservatori.
L'autore premiato al 'Franz Kafka Italia' |
Una sorda, sordida lotta di potere che Mariano descrive con abilità e maestria (compare anche una Crociata fratricida di cui poco si sa: 1208, Innocenzo III, “contri i catari, i puri”, e apprendiamo che al concilio di Clermont (1095), Urbano II aveva incitato alla “guerra all’infedele”. Da libro nero della Chiesa (come i testi del padre di de Molay sugli “scandali degli uomini legati alla Chiesa. Papi, cardinali, i loro affari, le loro donne, i loro figli, gli incesti, le congiure, gli assassini”). Si scopre anche la “Veronica”, un’altra Sindone.
Della durezza dei Domenicani, gli agenti segreti al servizio di Cristo, si sapeva. Come dello sterminio in un notte dei Templari (“vietato qualsiasi contatto con le donne”, “pratiche sataniche… idolatria… sodomia…”) invisi a Roma per la loro potenza e denaro (“bravi a gestire le proprie ricchezze”: prestavano a nobili e re). Tesoro che sparirà la notte fra 12 e 13 ottobre 1307 su 12 carri carichi di fieno. Troppo potenti, i Templari furono annientati dagli interessi coincidenti di Clemente VIII e Filippo il Bello, Imperatore di Francia.
L’icona più forte, ovvio, è il Sacro Graal, il calice dell’ultima cena usato da Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue di Cristo in croce: è in Vaticano? In Puglia (Castel del Monte)? A Loreto? L’Aquila (Celestino V, alias Pietro Angeleri, che regnò 5 mesi e 8 giorni e ne voleva fare la nuova Roma (quella del suo tempo troppo “corrotta”, “la parola povertà non si addiceva al ricco clero… la aborriva”, “dove sono gli ideali di amore e povertà?”, “uccide, condanna, tortura nel nome di Cristo, in realtà solo per ingrandire il proprio potere”) e un’altra Gerusalemme (la vera era in mani musulmane). L’ha nascosto Federico di Svevia che, pare, coltivava lo stesso sogno? E’ a Bari nella chiesa di San Nicola di Myra? E il “francescano volante” (“salute cagionevole… studi interrotti… sebbene non fossi un fenomeno sui libri…”, responsabilità di famiglia dopo l’improvvisa morte del padre: la vocazione nacque dalla visione della Madonna col Bambino) cosa ne sa, poiché legge il futuro?
Tra un volo, un’estasi e un miracolo (“il nodulo maligno che oltraggiava la giovane gola era scomparso…”) e il “forte odore di violette”, la Grottella e Assisi (il Sant’Ufficio, di Napoli e Roma, prende di mira il frate, che accetta con rassegnazione, “la nostra esistenza è solo un passaggio”) dà continui input all’inquieto Jacques (“il mio animo aveva perfino dubitato dell’esistenza di Dio…”), che ritroverà il fratello Arcangelo (divenuto un Templare, “voleva far conoscere al mondo i misfatti della Chiesa”) e gli illuminerà gli aspetti oscuri del mistero. Il Sacro Graal (che ha fatto restare incorrotti per mesi i martiri di Otranto) dovrebbe finalmente far uscire la Chiesa dalle secche dell’eresia e del conflitto tutti contro tutti (“la paura di perdere il primato spirituale dell’interpretazione delle parole del Cristo”), le vendette, i misteri, i veleni, i pugnali, le architetture del demonio (“doveva chiedere scusa al mondo per i suoi peccati, per aver interpretato a proprio piacimento le parole di Cristo”).
Mariano si conferma abile nell’intreccio, nel plot (suo è anche “Otranto, l’alba del 1480”), padroneggia con sapienza l’intarsio fra elementi reali e fantastici, il puzzle del mito e la leggenda, i topoi che hanno riscontri storici e le leggende dell’affabulazione popolare. Denominatore comune è anche stavolta il paesaggio, i profumi, gli odori che contaminano e ubriacano: la natura vista quasi in senso panteista, sacra, trasfigurata in un grembo materno (ulivi, gelsi mori, lecci, fichi). Ma pure (come per Idrusa) l’amore muliebre (per Natalia, appassionata di incunaboli) e filiale (Francesco, poi Elena, poi…).
Mariano ora ha ripreso un saggio del 2002 sulla criminalità in Terra d’Otranto, consultato da chi scrive sulla materia per autorevolezza analitica.
Tags
Cultura e Spettacoli