Dal nostro inviato Francesco Greco.VENEZIA – L’idea non è nuova: il cinema in b/n anni Quaranta e Cinquanta (ma anche prima: ricordate quel film con un sublime Erich Von Stroheim?) l’ha spremuta a dovere. Il tempo che passa, l’incapacità di accettarsi sul viale del tramonto, il passato che torna perché mal metabolizzato, i fantasmi. E poi la paranoia, la schizofrenia, a volte la follia.
“Birdman” (Michael Keaton) non riesce a farsene una ragione. Non riesce a rimodularsi. Sta per debuttare in teatro come regista e protagonista. Emergono come iceberg insidiosi tutte le debolezze, le insicurezze: i conflitti sono enfatizzati. E’ l’ennesima storia sulla crudeltà di un mondo dorato, Hollywood, dove si fabbricano sogni che si vorrebbero eterni. Ma la Mecca del cinema non c’entra nulla: è l’uomo che ha perso l’equilibrio dentro se stesso, che non sa accettarsi, che si dà aspettative eccessive incurante della realtà, con cui ha rotto ogni sintonia: d’altronde, è l’America, bellezza: competizione folle come archetipo culturale.
Applausi di rito per il primo film in concorso a Venezia 71, la black-comedy che porta la firma del messicano Alejandro Gonzales Inarritu ed è interpretato in scioltezza, oltre che da Keaton anche da Emma Stone, alla sua prima volta al Lido. Il suo è il personaggio più moderno: perduta nei social, da cui però in conferenza-stampa (ma non si capisce se è sincera o una strategia da ufficio-stampa) prende le distanze. Altra cosa che non si capisce: perché il regista considera “sperimentale” una pellicola che al contrario ha una grammatica omologante, quasi banale.
Hollywood, è vero, è cinica, spietata, frantuma i sogni, ma siamo noi spiazzati rispetto all’ambizione di esistere in una bolla metafisica. Vorremmo rivivere la felicità di ieri senza cercare una sua nuova dimensione. Ben lo sapeva Dorian Grey che finì col frantumare lo specchio implacabile nel mostrargli quel che era. Per cui il successo planetario di “Birdman” è irripetibile a teatro: non si possono avere le ali per tutta la vita e non si può chiedere troppo al proprio alter-ego. Ma non è colpa della figlia capricciosa né del coprotagonista con cui deve competere, e nemmeno dell’insonnia né dei ricordi del passato: ma dei fantasmi che alleviamo dentro noi stessi e che ci sconvolgono, rovinandoci la vita.
“Birdman” (Michael Keaton) non riesce a farsene una ragione. Non riesce a rimodularsi. Sta per debuttare in teatro come regista e protagonista. Emergono come iceberg insidiosi tutte le debolezze, le insicurezze: i conflitti sono enfatizzati. E’ l’ennesima storia sulla crudeltà di un mondo dorato, Hollywood, dove si fabbricano sogni che si vorrebbero eterni. Ma la Mecca del cinema non c’entra nulla: è l’uomo che ha perso l’equilibrio dentro se stesso, che non sa accettarsi, che si dà aspettative eccessive incurante della realtà, con cui ha rotto ogni sintonia: d’altronde, è l’America, bellezza: competizione folle come archetipo culturale.
Applausi di rito per il primo film in concorso a Venezia 71, la black-comedy che porta la firma del messicano Alejandro Gonzales Inarritu ed è interpretato in scioltezza, oltre che da Keaton anche da Emma Stone, alla sua prima volta al Lido. Il suo è il personaggio più moderno: perduta nei social, da cui però in conferenza-stampa (ma non si capisce se è sincera o una strategia da ufficio-stampa) prende le distanze. Altra cosa che non si capisce: perché il regista considera “sperimentale” una pellicola che al contrario ha una grammatica omologante, quasi banale.
Hollywood, è vero, è cinica, spietata, frantuma i sogni, ma siamo noi spiazzati rispetto all’ambizione di esistere in una bolla metafisica. Vorremmo rivivere la felicità di ieri senza cercare una sua nuova dimensione. Ben lo sapeva Dorian Grey che finì col frantumare lo specchio implacabile nel mostrargli quel che era. Per cui il successo planetario di “Birdman” è irripetibile a teatro: non si possono avere le ali per tutta la vita e non si può chiedere troppo al proprio alter-ego. Ma non è colpa della figlia capricciosa né del coprotagonista con cui deve competere, e nemmeno dell’insonnia né dei ricordi del passato: ma dei fantasmi che alleviamo dentro noi stessi e che ci sconvolgono, rovinandoci la vita.