'Sacro et profano': il Sud nelle canzoni di Mimmo Cavallaro

di Francesco Greco - La voce del Sud più arcaico, ancestrale, che arriva dal cuore del tempo per innervarsi nella modernità confusa e volgare, dove tutti i valori sono stati relativizzati, ogni autorità destrutturata. Canti di lavoro, d’amore, di spiritualità (a Pasqua e Natale): dicono di un mondo dove invece tutto aveva un senso, un ruolo e anche una dignità: l’uomo, le cose, la ritualità della vita, la parola, la sua sensualità. E le stagioni, gli dei, i frutti, la terra, il suo cuore insonne e generoso. Il Sud della memoria sedimentata, le radici solide nel mondo, l’appartenenza a un popolo, un mondo con le sue regole e i codici non scritti: asprezza e bellezza, fatica e socialità gratificante. Poi sarebbero venuti i tempi della diaspora da noi stessi, l’alienazione, la lacerante solitudine, l’uomo contro se stesso, a una sola volgare dimensione, sotoditro dai media (che Mac Luhan faceva coincidere con il medium), il darwinismo sociale: homo omini lupus.

Se c’è un prima e un dopo, il cantautore e ricercatore calabrese Mimmo Cavallaro, con la sua passione inesauribile per la memoria, si è dato una mission: lavorare affinché la nostra anima non vada atomizzata, perduta. Un lavoro di recupero e valorizzazione, cosciente che i media d’oggi impoveriscono e desertificano la memoria, la lingua è colta da afasia, l’oblio ci inghiotte ogni giorno sempre di più e il nostro dna antropologico è sopraffatto da una cultura di asservimento, di dominio. E’ un po’ come i monaci del monastero di Casole (all’ombra della Cattedrale di Otranto) che traducevano i testi della sapienza universale affinché il mondo ne godesse nel tempo infinito.
Il background di “Sacro et profano” (CNI Musica / Compagnia Nuove Indye, Roma 2014) è anche qui: nella ricerca dei sentimenti e delle passioni, i pudori e l’orgoglio di una terra trasfigurata nei suoi canti che Cavallaro recupera “sul campo”, da fonti orali prima che vadano irrimediabilmente perdute. Dovrebbe essere - fossimo un Paese serio e non masochista - un lavoro sistematico, sparso in ogni anfratto dell’Italia benché mai unita davvero, sempre alle prese con i bassi istinti dettati da un’identità caduca, da una percezione esile come popolo e come cultura. Invece è affidato, a macchia di leopardo, a uomini di buona volontà che avranno la gratitudine dei posteri. 

Cavallaro si colloca nel solco dei grandi interpreti popolari d’ogni tempo: da Otello Profazio (suo conterraneo) al pugliese Matteo Salvatore, da Rosa Balistreri a Giovanna Marini, da Gipo Farassino a Romolo Balzani, dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare alle Nacchere Rosse e la divina Maria Carta e tanti altri, incluso il povero Enzo Del Re che, dopo una vita volutamente fuori dal traffico sulla canzone ruffiana, cuore/amore, è morto povero e solo. Che a loro volta si collegano alla canzone popolare in ogni latitudine del mondo che ha le sue icone in Mercedes Soza e Victor Jara, da Amalia Rodriguez ai Quilapayum, da Jhonny Cash ad Arlo Gutrie e Joan Beaz, ecc. 
Se ci chiedessero qual è la differenza fra la musica che riempie stadi e teatri con i suoi poeti lacrimosi dai cuori infranti e l’impegno finto politico sempre di moda e questa di nicchia, sprezzantemente definita folk, potremmo riassumerla così: Cavallaro e gli altri parlano della vita, i Jovanotti, i Ramazzotti e i “chitarrosi” vari (così li definiva il grande Sergio Saviane) mettono in scena la sua rappresentazione. E ancora: mentre le ballate di Profazio e di Salvatore (ma anche degli Ucci salentini con la loro musica di tradizione) sono politica allo stato primordiale e quindi pregne di maieutica quasi escatologica, la musica dei suddetti è il prodotto della fine della politica, è la sua più evidente patologia. Mentre la voce calda e forte, colma di emergia e di solarità di Cavallaro scende nelle viscere oscure del tempo, dell’uomo, della Storia, i suddetti accarezzano e titillano in superficie il reale per lasciarlo com’è, succhiando anzi dallo status quo per arricchirsi senza vergogna. La musica di Cavallaro è amplesso gioioso che arricchisce, gli altri suddetti onanismo meccanico, triste e volgare. I testi dei suddetti sono spazzatura, rime baciate, fasulle e ruffiane fino al midollo. I 31 canti che Cavallaro ha recuperato dal nucleo più intimo dell’uomo e del tempo insonne sono aspri e dolci, colmi di luce, di gioia, di rabbia, di bellezza, di poesia. Come la vita che ci è toccata in sorte e quella che abbiamo ereditato per vie di sangue e che trasmetteremo alle generazioni future. Non contengono affatto, come il volgo potrebbe pensare, la monumentalizzazione asettica e feticista di ieri, priva di qualsivoglia dialettica. Al contrario: lo illuminano d’immenso mostrando al colto e l’inclita la modernità, diremmo l’immortalità dei suoni, il linguaggio, i temi.

Voce e chitarra acustica bastano a darci gli echi di un mondo perduto e che pure ci portiamo nel dna, magari nel subconscio, a sollecitare la memoria debole e l’autostima nulla, o quasi, oltre al senso di noi stessi e di un lavoro prezioso (solo l’ultimo del menestrello calabrese che lo porta avanti da sempre: del 2009 è “Sona battenti”, prodotto da Taranta Power ed Eugenio Bennato, poi ha fondato i Taranproject con cui nel 2011 ha fatto “Hyuri di hyumari”, “Rolica” nel 2012 e “Sonu” nel 2013, prodotti ancora da CNI). Due cd che non si contrappongono come tematiche, ma al contrario si contaminano e si intrecciano in un gioco delizioso di illuminazioni, echi, risonanze, e in cui ci siamo tutti col nostro dolore e la speranza, l’amore e la fierezza di un popolo che la retorica risorgimentale in un secolo e mezzo non è riuscita a formattare: il nostro ieri e l’oggi, l’anima segreta di quel che siamo. Un affollamento semantico prezioso, che ci riconcilia con noi stessi. Perché sena alcun filtro accademico né commerciale: la voce della vecchia canta quel che probabilmente ascoltò da bambina e Cavallaro ascolta e trasporta con voce e chitarra per donarlo a noi ingrati. 

Il “sacro” è segnato da una spiritualità quasi primitiva, il rapporto con la fede che sullo sfondo fa intravedere una vitalità pagana sopravvissuta nella cultura cattolica. Mentre il “profano” è suggerito dalla nostra anima barocca, segnata da sentimenti forti vissuti con intensità e irrazionalità. E le due facce finiscono col rappresentare il mosaico complesso del nostro essere, dirci quel che forse ignoriamo, portare alla luce le nostre radici, segnare i confini del cuore. Una tavolozza densa di umori e sottintesi, di una ricchezza senza limiti, colma di pathos e di energia universale, dalle infinite interfacce, che dice di noi più di mille trattati di storia, tomi di sociologia, saggi di economia. Più del sapere codificato nelle accademie, gli atenei, le biblioteche. Perché viene dall’anima più profonda del tempo, dal cuore dell’uomo: dall’inesauribile magia e poesia della vita.

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