dal nostro inviato Francesco Greco. VENEZIA – Favoloso, si, ma anche, soprattutto rivoluzionario. Rispetto al tempo che gli toccò in sorte, il suo pensiero è modernissimo, antiromantico, in anticipo, scagliato nel futuro da ogni punto di vista: politico innanzitutto, poi morale, estetico, filosofico, ecc.
A banalizzarlo è stata la scuola italiana, parruccona e ammuffita, che dall’opera monumentale ha tratto quasi sempre l’ovvio: il fidanzato di Silvia, il cantore della natura vista in chiave quasi panteistica, il retore bucolico. Leopardi è stato altro, tanto altro. Cantore della solitudine cosmica dell’uomo ma anche illuminista, razionale, che all’uomo accredita quel libro arbitrio con cui potrebbe governare il proprio destino.
Se diamo a questo incipit valore d’assunto, la conclusione è che “Il giovane favoloso” (terzo e ultimo film italiano in concorso alla 71ma edizione della Mostra del Cinema firmato da Mario Martone) accenna, ma non riesce a sdoganare in toto il Leopardi sovversivo, dal pensiero destrutturante. Nonostante l’adesione precisa, stanislawskjana di Elio Germano che reinterpreta i tic, gli sguardi, la fisicità del Grande Poeta di Recanati.
Peccato! Le premesse c’erano, le conclusioni un po’ meno. Eppure era quello l’aspetto più intrigante del Nostro, la sfida da affrontare se si voleva scaraventarlo nel III Millennio per farlo interagire con il nostro tempo e i suoi archetipi culturali e politici.
Nato al tramonto del Settecento, Leopardi è un uomo e un poeta che ispira tenerezza. Il regista lo coglie in tre incroci della sua breve parabola, ma non riesce a trasmetterci tutta la potenza maieutica del suo pensiero, a darci il senso del suo essere poeta “sovversivo”. Così vediamo Giacomo ragazzino geniale, che studia intensamente i classici (capirà da adulto di essersi rovinato la salute): la biblioteca del padre Monaldo è vastissima e il genitore riversa sul figlio le ambizioni frustrate dalla sua modestia intellettuale.
La provincia gli va stretta, come accade a ogni genio, gli orizzonti lo soffocano: non resta che partire, poco più che adolescente (24enne), per nutrire la sua sensibilità, la sua anima con altre visioni. Firenze lo accoglie come merita, ma i fiorentini sono un po’ spocchiosi e non accettano confronti, specie con un intellettuale di statura superiore. I circoli lo ricacciano ai limiti degli ambienti che contano, ma Leopardi è abbastanza forte, e anche ironico, da non soffrirne più di tanto.
Forse quello colto a Napoli è il Leopardi più vero, sincero, emozionante. Lo accoglie l’amico Ranieri e in una città sanguigna, passionale, il Poeta si trova subito a suo agio. Adora la gente dei Quartieri Spagnoli, si intrattiene con le persone modeste ma di gran cuore. Non cerca più il successo letterario e ha consumato le illusioni sentimentali. Il fisico gli si rivolta contro, anche se non è stato mai un “fisicato”. Martone spinge tutto ciò fino alla caricatura. Il carisma della parola, la luce dello sguardo non si deteriorano con le rughe e i muscoli.
Il Poeta può lasciarsi andare. Frequenta osterie mangiando smodatamente, adora i gelati (qui la psicanalisi potrebbe dirci perché), ama le ragazze del popolo (Martone fa capire che sono escort, in realtà non è così: altra forzatura). Quando scoppia il colera Ranieri lo trascina a Torre Annunziata. Qui pare abbia scritto “La ginestra”, che contiene tutta la sua poetica e dove svela la forza potente del suo pensiero immortale.
Morirà a Napoli appena 37enne. Il film è stato ben accolto, e tuttavia lascia quel senso di incompletezza che chi è sceso nel profondo delle viscere, nel sottosuolo magmatico della speculazione leopardiana sa che c’è. Ma forse si continua ad aver paura di quel pensiero capace di demolire le nostre misere certezze: la sua luce è troppo potente, turba e sconvolge com’è sempre per le parole di chi si è consegnato già in vita all’eternità aprendosi un varco nel tempo, illuminato dalla gloria perenne e dalla tenerezza e gratitudine di noi posteri.
A banalizzarlo è stata la scuola italiana, parruccona e ammuffita, che dall’opera monumentale ha tratto quasi sempre l’ovvio: il fidanzato di Silvia, il cantore della natura vista in chiave quasi panteistica, il retore bucolico. Leopardi è stato altro, tanto altro. Cantore della solitudine cosmica dell’uomo ma anche illuminista, razionale, che all’uomo accredita quel libro arbitrio con cui potrebbe governare il proprio destino.
Se diamo a questo incipit valore d’assunto, la conclusione è che “Il giovane favoloso” (terzo e ultimo film italiano in concorso alla 71ma edizione della Mostra del Cinema firmato da Mario Martone) accenna, ma non riesce a sdoganare in toto il Leopardi sovversivo, dal pensiero destrutturante. Nonostante l’adesione precisa, stanislawskjana di Elio Germano che reinterpreta i tic, gli sguardi, la fisicità del Grande Poeta di Recanati.
Peccato! Le premesse c’erano, le conclusioni un po’ meno. Eppure era quello l’aspetto più intrigante del Nostro, la sfida da affrontare se si voleva scaraventarlo nel III Millennio per farlo interagire con il nostro tempo e i suoi archetipi culturali e politici.
Nato al tramonto del Settecento, Leopardi è un uomo e un poeta che ispira tenerezza. Il regista lo coglie in tre incroci della sua breve parabola, ma non riesce a trasmetterci tutta la potenza maieutica del suo pensiero, a darci il senso del suo essere poeta “sovversivo”. Così vediamo Giacomo ragazzino geniale, che studia intensamente i classici (capirà da adulto di essersi rovinato la salute): la biblioteca del padre Monaldo è vastissima e il genitore riversa sul figlio le ambizioni frustrate dalla sua modestia intellettuale.
La provincia gli va stretta, come accade a ogni genio, gli orizzonti lo soffocano: non resta che partire, poco più che adolescente (24enne), per nutrire la sua sensibilità, la sua anima con altre visioni. Firenze lo accoglie come merita, ma i fiorentini sono un po’ spocchiosi e non accettano confronti, specie con un intellettuale di statura superiore. I circoli lo ricacciano ai limiti degli ambienti che contano, ma Leopardi è abbastanza forte, e anche ironico, da non soffrirne più di tanto.
Forse quello colto a Napoli è il Leopardi più vero, sincero, emozionante. Lo accoglie l’amico Ranieri e in una città sanguigna, passionale, il Poeta si trova subito a suo agio. Adora la gente dei Quartieri Spagnoli, si intrattiene con le persone modeste ma di gran cuore. Non cerca più il successo letterario e ha consumato le illusioni sentimentali. Il fisico gli si rivolta contro, anche se non è stato mai un “fisicato”. Martone spinge tutto ciò fino alla caricatura. Il carisma della parola, la luce dello sguardo non si deteriorano con le rughe e i muscoli.
Il Poeta può lasciarsi andare. Frequenta osterie mangiando smodatamente, adora i gelati (qui la psicanalisi potrebbe dirci perché), ama le ragazze del popolo (Martone fa capire che sono escort, in realtà non è così: altra forzatura). Quando scoppia il colera Ranieri lo trascina a Torre Annunziata. Qui pare abbia scritto “La ginestra”, che contiene tutta la sua poetica e dove svela la forza potente del suo pensiero immortale.
Morirà a Napoli appena 37enne. Il film è stato ben accolto, e tuttavia lascia quel senso di incompletezza che chi è sceso nel profondo delle viscere, nel sottosuolo magmatico della speculazione leopardiana sa che c’è. Ma forse si continua ad aver paura di quel pensiero capace di demolire le nostre misere certezze: la sua luce è troppo potente, turba e sconvolge com’è sempre per le parole di chi si è consegnato già in vita all’eternità aprendosi un varco nel tempo, illuminato dalla gloria perenne e dalla tenerezza e gratitudine di noi posteri.