dal nostro inviato Francesco Greco.
VENEZIA – “Sono uno che scende all’inferno…”. E’ qui la poetica di Pier Paolo Pasolini, l’ultimo intellettuale vero, “maudit” della storia patria, mito del Novecento, assassinato 39 anni fa, la notte dei Morti del 1975. Il cui pensiero è attuale e sempre lo sarà. Scrittore, poeta, regista, tormentato, complesso, dalla password barocca.
Le ultime due giornate di vita del grande friulano delle “Ceneri di Gramsci”, “Uccellacci e uccellini” e “L’ultima giornata di Sodoma” è il tema del film “Pasolini”, del newyorchese Abel Ferrara, in concorso a Venezia 71, applaudito sia dalla stampa che dal pubblico, in una Mostra che declina verso la chiusura, mentre la città si veste dei toni crepuscolari dell’autunno, fra piogge improvvise e vento forte. Com’è triste Venezia, aveva ragione Aznavour…
E’ una “visione” molto personale quella offerta da Ferrara – lo considera un maestro e confessa di essere cresciuto abbeverandosi al suo cinema - che ibrida elementi reali, carte processuali, ad altri diciamo fantastici. Deluso comunque chi si aspettava “dritte” sull’omicidio. Non era facile approcciare un personaggio così ispido. Ma se l’intento estetico e politico era di raffigurare un intellettuale italiano non schierato se non con le proprie ossessioni, militanze, provocazioni, trasgressioni, il film allora è pienamente riuscito.
E quel che dice fa riflettere, soprattutto in tempi del tutto secolarizzati come i nostri, perché non oggetto a relativismi di sorta. Anzi, il pensiero del poeta di Casarsa del Friuli, che viveva all’Eur con l’anziana madre Susanna (la bravissima Adriana Asti) a cui era molto affezionato, una cugina (Giada Colagrande), Nico Naldini, Laura Betti (Maria de Medeiros) oggi dovrebbe interagire con un contesto sociale e politico degradato, da apocalipse now e la sua opera riproposta senza scandalismi di sorta, ma in senso dialettico.
Accennati nell’ultimo romanzo, uscito postumo, “Petrolio”, che ha avuto vita tormentata (troppo radicale l’attacco al sistema politico e industriale) ma anche il film che non è riuscito a fare, dal titolo impossibile: “Porno Teo Colonial” (voleva Eduardo De Filippo come protagonista). Il viaggio di un ragazzo e un uomo maturo che, seguendo la stella cometa, si ritrovano a Utòpia, città nelle mani degli omosessuali.
Emerge ancora una volta la violenta denuncia politica, morale, inconoclasta (che era anche negli scritti corsari sul “Giorno” prima e sul “Corriere della Sera” poi) del reale, le sue aberrazioni e violenze, le insensatezze della classe politica insipiente, immersa in una corruzione senza limiti né confini che oggi, senza più barriere ideologiche, è tracimata, ed è ancor più scandalosa – se si potesse - rispetto agli anni Settanta dell’altro secolo.
Il film (“la chiave usata? La compassione” dice Ferrara) abbatte le barriere temporali e scorre via con incursioni rapide e sapide come pennellate espressioniste. Riccardo Scamarcio, lo stesso Ninetto Davoli (che torna a Venezia dopo mezzo secolo), Valerio Mastandrea, Adriana Asti: “Credevo fosse immortale…”), Willem Defoe che lo incarna con commovente realismo assecondano con bravura e disinvoltura il regista (di religione buddista, la meditazione gli è stata assai utile) scambiandosi i ruoli e anche la lingua è intrecciata, contaminata: l’italiano alternato al romanesco dà più forza e realismo al racconto nella Roma pallida e stremata degli anni di piombo.
Il “credo” laico ma al fondo intimamente religioso di Pasolini è dispiegato in tutta la sua interezza e accecante bagliore. Fu un uomo cosciente di essere, con le sue intuizioni, al di sopra del suo tempo, e anche di doverne pagare il prezzo. Fino all’estremo sacrificio: crocifisso all’Idroscalo di Ostia, che ci lasciò orfani. Poi gattopardi e sciacalli si presero la scena con gran clamore. E non la lasciarono più. Chissà cosa ne scriverebbe oggi PPP?
Le ultime due giornate di vita del grande friulano delle “Ceneri di Gramsci”, “Uccellacci e uccellini” e “L’ultima giornata di Sodoma” è il tema del film “Pasolini”, del newyorchese Abel Ferrara, in concorso a Venezia 71, applaudito sia dalla stampa che dal pubblico, in una Mostra che declina verso la chiusura, mentre la città si veste dei toni crepuscolari dell’autunno, fra piogge improvvise e vento forte. Com’è triste Venezia, aveva ragione Aznavour…
E’ una “visione” molto personale quella offerta da Ferrara – lo considera un maestro e confessa di essere cresciuto abbeverandosi al suo cinema - che ibrida elementi reali, carte processuali, ad altri diciamo fantastici. Deluso comunque chi si aspettava “dritte” sull’omicidio. Non era facile approcciare un personaggio così ispido. Ma se l’intento estetico e politico era di raffigurare un intellettuale italiano non schierato se non con le proprie ossessioni, militanze, provocazioni, trasgressioni, il film allora è pienamente riuscito.
E quel che dice fa riflettere, soprattutto in tempi del tutto secolarizzati come i nostri, perché non oggetto a relativismi di sorta. Anzi, il pensiero del poeta di Casarsa del Friuli, che viveva all’Eur con l’anziana madre Susanna (la bravissima Adriana Asti) a cui era molto affezionato, una cugina (Giada Colagrande), Nico Naldini, Laura Betti (Maria de Medeiros) oggi dovrebbe interagire con un contesto sociale e politico degradato, da apocalipse now e la sua opera riproposta senza scandalismi di sorta, ma in senso dialettico.
Accennati nell’ultimo romanzo, uscito postumo, “Petrolio”, che ha avuto vita tormentata (troppo radicale l’attacco al sistema politico e industriale) ma anche il film che non è riuscito a fare, dal titolo impossibile: “Porno Teo Colonial” (voleva Eduardo De Filippo come protagonista). Il viaggio di un ragazzo e un uomo maturo che, seguendo la stella cometa, si ritrovano a Utòpia, città nelle mani degli omosessuali.
Emerge ancora una volta la violenta denuncia politica, morale, inconoclasta (che era anche negli scritti corsari sul “Giorno” prima e sul “Corriere della Sera” poi) del reale, le sue aberrazioni e violenze, le insensatezze della classe politica insipiente, immersa in una corruzione senza limiti né confini che oggi, senza più barriere ideologiche, è tracimata, ed è ancor più scandalosa – se si potesse - rispetto agli anni Settanta dell’altro secolo.
Il film (“la chiave usata? La compassione” dice Ferrara) abbatte le barriere temporali e scorre via con incursioni rapide e sapide come pennellate espressioniste. Riccardo Scamarcio, lo stesso Ninetto Davoli (che torna a Venezia dopo mezzo secolo), Valerio Mastandrea, Adriana Asti: “Credevo fosse immortale…”), Willem Defoe che lo incarna con commovente realismo assecondano con bravura e disinvoltura il regista (di religione buddista, la meditazione gli è stata assai utile) scambiandosi i ruoli e anche la lingua è intrecciata, contaminata: l’italiano alternato al romanesco dà più forza e realismo al racconto nella Roma pallida e stremata degli anni di piombo.
Il “credo” laico ma al fondo intimamente religioso di Pasolini è dispiegato in tutta la sua interezza e accecante bagliore. Fu un uomo cosciente di essere, con le sue intuizioni, al di sopra del suo tempo, e anche di doverne pagare il prezzo. Fino all’estremo sacrificio: crocifisso all’Idroscalo di Ostia, che ci lasciò orfani. Poi gattopardi e sciacalli si presero la scena con gran clamore. E non la lasciarono più. Chissà cosa ne scriverebbe oggi PPP?