di Vittorio Polito - In tipografia e in editoria sanno molto bene cosa significa ‘refuso’, che altro non è che un errore di stampa, di composizione o di scrittura. Chiaramente la colpa non è solo e sempre imputabile al tipografo o meglio al compositore, figura oggi quasi del tutto scomparsa, dal momento che il computer lo ha sostituito a dir poco nel 90% dei casi, ma spesso è anche di chi scrive (poeta, scrittore, ecc.).
Fino a qualche decennio fa la composizione tipografica avveniva con le singole lettere, la cosiddetta “stampa a caratteri mobili”. In sostanza il compositore prendeva lettera per lettera da appositi cassetti e componeva le frasi e fu così che fu composta nel 1453 in Germania (Magonza) la prima opera tipografica rappresentata com’è noto dalla Bibbia latina di Gutemberg. Nell’arco di un decennio il lavoro tipografico si diffonde nelle varie città europee, ma l’Italia è privilegiata dai proto-tipografi tedeschi che nel 1464 giungono al Monastero benedettino di Subiaco, già centro importante per la produzione di manoscritti, nel quale vengono pubblicati il “De oratore” di Cicerone e il “De civitate Dei” di Sant’Agostino. A Venezia i primi stampatori giungono nel 1469, mentre la nuova arte si diffuse rapidamente anche in altre città italiane.
Nella nostra città, Bari, il primo libro è stato stampato nel 1535 con il titolo “Operette del Parthenopeo Suauio”, riprodotto in stampa anastatica pure a Bari nel 1982 dalle Edizioni Levante.
Ma torniamo al refuso, l’errore causato dallo scambio o dallo spostamento di una o due lettere, spesso è dovuto a errati inserimenti di lettere negli scomparti delle casse tipografiche, o più recentemente con l’entrata in funzione della ‘Linotype’, una macchina per la composizione meccanica delle pagine di stampa. Consiste in una tastiera, collegata a dei ‘magazzini’, ossia a delle cassette in cui vengono conservate le matrici delle lettere, dei segni e degli spazi, che vengono richiamati man mano che il compositore linotipista batte i segni sulla tastiera. In questo caso per correggere eventuali errori era necessario sostituire l’intero rigo e quindi ulteriori pericoli di refusi.
Quando un libro o altro era pubblicato con qualche errore allora si ricorreva alla cosiddetta ‘errata corrige’, cioè si inseriva nel testo un foglio con l’elenco degli errori (o dei refusi) e la relativa correzione.
L’occasione è gradita per segnalare due composizioni poetiche relative al refuso, rispettivamente di Gino Pastore, scrittore nostrano ed autore di una recente “Storia di Capurso” (Levante editori), e di Gianni Rodari (1920-1980), scrittore, pedagogista, giornalista e poeta italiano.
Secondo una vecchia massima: «Chi non ha mai fatto un errore, non ha mai fatto una scoperta», il che equivale a dire che «Erriamo tutti, ma in modo differente». Secondo un presidente di un ordine dei giornalisti italiani una volta vi erano i correttori di bozze e i giornalisti, oggi vi sono i giornalisti e i... giornalisti.
Personalmente ritengo che tutti ‘giornalisti’ siano una garanzia di democrazia e libertà e mi fa tornare in mente una frase di Bernard Shaw: «La libertà implica responsabilità per cui molti uomini la temono». La differenza poi la fa la vita: facendo diventare alcuni giornalisti delle ‘firme’ ed altri solo dei firmatari di alcune parole assemblate in libertà (...PAROLA CHE RITORNA SEMPRE!).
Pur essendo un giornalista pubblicista mi considero schierato con i firmatari e all’inizio di questa nota troverete un refuso di nome Vittorio Polito.
Fino a qualche decennio fa la composizione tipografica avveniva con le singole lettere, la cosiddetta “stampa a caratteri mobili”. In sostanza il compositore prendeva lettera per lettera da appositi cassetti e componeva le frasi e fu così che fu composta nel 1453 in Germania (Magonza) la prima opera tipografica rappresentata com’è noto dalla Bibbia latina di Gutemberg. Nell’arco di un decennio il lavoro tipografico si diffonde nelle varie città europee, ma l’Italia è privilegiata dai proto-tipografi tedeschi che nel 1464 giungono al Monastero benedettino di Subiaco, già centro importante per la produzione di manoscritti, nel quale vengono pubblicati il “De oratore” di Cicerone e il “De civitate Dei” di Sant’Agostino. A Venezia i primi stampatori giungono nel 1469, mentre la nuova arte si diffuse rapidamente anche in altre città italiane.
Nella nostra città, Bari, il primo libro è stato stampato nel 1535 con il titolo “Operette del Parthenopeo Suauio”, riprodotto in stampa anastatica pure a Bari nel 1982 dalle Edizioni Levante.
Ma torniamo al refuso, l’errore causato dallo scambio o dallo spostamento di una o due lettere, spesso è dovuto a errati inserimenti di lettere negli scomparti delle casse tipografiche, o più recentemente con l’entrata in funzione della ‘Linotype’, una macchina per la composizione meccanica delle pagine di stampa. Consiste in una tastiera, collegata a dei ‘magazzini’, ossia a delle cassette in cui vengono conservate le matrici delle lettere, dei segni e degli spazi, che vengono richiamati man mano che il compositore linotipista batte i segni sulla tastiera. In questo caso per correggere eventuali errori era necessario sostituire l’intero rigo e quindi ulteriori pericoli di refusi.
Quando un libro o altro era pubblicato con qualche errore allora si ricorreva alla cosiddetta ‘errata corrige’, cioè si inseriva nel testo un foglio con l’elenco degli errori (o dei refusi) e la relativa correzione.
L’occasione è gradita per segnalare due composizioni poetiche relative al refuso, rispettivamente di Gino Pastore, scrittore nostrano ed autore di una recente “Storia di Capurso” (Levante editori), e di Gianni Rodari (1920-1980), scrittore, pedagogista, giornalista e poeta italiano.
Il refuso
Il nemico più insidioso
per un qualsiasi autore
è il refuso, ch’è ascoso,
invisibile e senza cuore,
tra le pieghe di una frase,
dietro un nome o una data,
in attesa, se si dà il caso,
di scalzarli di soppiatto.
Assai difficile è scovarlo
per qualsiasi correttore,
ché in silenzio, come un tarlo,
rode e corrode il suo onore.
Se di cinquecento pagine
quattrocentonovantanove
suonan d’alto accento,
per un sol refuso, per Giove,
una fatica d’anni ed anni,
per qualche critico solerte
che gufa più d’un barbagianni,
diventa materia inerte.
Allora, evviva il refuso?
Per carità, non l’ho mai detto.
Ma non si giudica, da ottuso,
un’opera da un sol difetto.
Gino Pastore
scrittore
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Il refuso è quella cosa
che tu trovi nel giornale e ci resti molto male se non sei svelto a capir.
Per esempio: “A Busto Arsizio
cadde ier la prima nave”. Fatto strano e pure grave, perché a Busto il mar non c’è.
Leggo poi che, causa vento,
un signor “perde il cammello”.
Una volta era il cappello che volava in qua e in là.
Buffi ladri, e dico poco,
sono quelli di Subiaco che nel muro han fatto un baco per rubar dal gioiellier.
Li hanno presi, meno male.
Li avran messi tosto in cella? Dice che li han messi in sella. Ora chi li prende più?
La signora Moriconi,
cuciniera poco accorta, nel richiudere la torta s’è schiacciato l’anular.
Il refuso in conclusione
è il burlone del giornale e può far sorgere il sale mentre noi s’aspetta il sol.
Gianni
Rodari
Da “Filastrocche per
tutto l’anno”
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Personalmente ritengo che tutti ‘giornalisti’ siano una garanzia di democrazia e libertà e mi fa tornare in mente una frase di Bernard Shaw: «La libertà implica responsabilità per cui molti uomini la temono». La differenza poi la fa la vita: facendo diventare alcuni giornalisti delle ‘firme’ ed altri solo dei firmatari di alcune parole assemblate in libertà (...PAROLA CHE RITORNA SEMPRE!).
Pur essendo un giornalista pubblicista mi considero schierato con i firmatari e all’inizio di questa nota troverete un refuso di nome Vittorio Polito.