di Francesco Greco - Adesso che la cucina molecolare è stata finalmente relativizzata, graziaddio ridicolizzata, confinata cioè in nicchie abitate da snob spocchiosi e si teorizza, giustamente, la centralità del cibo e del territorio che lo esprime, lasciando sullo sfondo il consumatore, s’è aperta una fase nuova.
E se “l’infinitamente lontano è il ritorno” (Lao-Tzu), si può guardare con commiserazione chi compra “zucchine e fragole a dicembre”. Ma si può anche filosofeggiare senza essere blasfemi sul cibo come espressione polisemica di un plateau di valori da condividere se vissuti nella maniera giusta, una forma di koinè sottintesa.
Esso dice molto di noi in termini di identità forte, di appartenenza a un’epica, contiene un dna barocco, una memoria e le sue infinite sfaccettature, gli echi di radici lontane che si fondono e si pérdono nella sensualità del tempo.
E proprio il tempo che sino a ieri scandiva la nostra vita felice, e i nostri cibi divini, invidiati nell’Olimpo, è la password usata da Elena e Alberto Mora per il “Dizionario dei sapori perduti”, Cairo Editore, Milano 2014, pp. 190, € 10,00 (collana “Extra”).
Il tempo recuperato e restituito alla primitiva semantica, pigro e insonne, che torna dunque a fluire nella sua dimensione più vera, di cui, nonostante il ‘900 degli “ismi” batte ancora in noi, ci siamo sbarazzati con troppa disinvoltura fino a ritrovarci nel deserto del senso a spingere con altri alienati un carrello di cibo-rubbish che mette di pessimo umore e ci fa aggressivi e che adesso invece inseguiamo inquieti cercandolo in un piatto povero, la ricetta con cui siamo stati svezzati, intravedendolo nel cibo dall’odore e sapore unico che solo la nonna buonanima sapeva approntare, che cuoceva lento sul fuoco spandendo aromi perduti e che da allora mai più assaporammo.
Perché il cibo è anche una divinità, lo scopriamo all’improvviso, disgustati da sofisticazioni d’ogni sorta, spesso mortali (fra coloranti, conservanti e altre invenzioni suicide imposte dalla logica del profitto uber alles) e dallo spreco quotidiano (ogni anno una famiglia ne butta via 49 kg., valore 316 €), è portatore di un ricco affollamento semantico, di un sostrato filologico che riemerge, di un denso epos e di complesso etos, oltre che di ricordi sedimentati e di buona salute. E una volta fatto nostro questo assunto, ricca o povera che sia il nostro status, e al di là della formazione culturale, non vogliamo perdere manco un’ora nel recuperare il tempo perduto.
Questo libro fa proprio al caso nostro. E’ una sorta di zibaldone leopardiano colmo di input etici, di dizionario filosofico volterriano (dalla a di acqua alla z di zucchine) che contiene ramificazioni estetiche, di appropriazione di un’anima in senso borgesiano. Sfogliare e gustare lo stesso sapore lieve e dolce delle madeleine con cui Proust credeva di afferrare il senso profondo del tempo, delle cose, dello stare al mondo, è tutt’uno.
La bandella ci dice che i Mora, fratello e sorella, nati a metà anni ‘50, sono piemontesi. Si integrano alla perfezione: lui conserva freschi i ricordi dell’infanzia, quando tutto aveva un sapore più intenso, lei ha la penna facile (già hanno pubblicato, 2012, con lo stesso editore, il “Dizionario dei giochi perduti”).
E dunque, smettete di spingervi per un rancido tramezzino al tonno e pomodoro al baretto di fronte all’ufficio, nella pausa-pranzo, di masturbarvi con la nouvelle cuisine trovando un’affabulazione posticcia, di cercare il ristorante costoso che promette sfracelli e quasi sempre delude (non nel conto!), chiudete gli occhi e come in un flash-back, ecco il tempo andato quando ancora il frigo non esisteva, il gelataio sulla piazzetta la domenica pomeriggio, l’acqua minerale artigianale, il sapore della marmellata, ovvio, fatta in casa, gli asparagi si coltivavano con una ritualità quasi esoterica, il pranzo di Natale era una dolce alchimia, una conquista e tutto aveva un senso e nulla era buttato via (“Avanzi di oggi, pietanza di domani”).
Intrigante il format del libro: scava nella memoria e riporta alla luce lacerti di vissuto, poi fruga nel background e con quegli ingredienti della cucina di ieri stila ricette appetitose quanto creative che, se volessimo, potremmo preparare. Prima di arrenderci definitivamente al cibo-spazzatura, ai suoi aedi, alla volgarità di tempi che con l’alibi di nutrirci ci trasmettono volgari disvalori, e talvolta ci avvelenano anima e corpo, e ci uccidono.
E se “l’infinitamente lontano è il ritorno” (Lao-Tzu), si può guardare con commiserazione chi compra “zucchine e fragole a dicembre”. Ma si può anche filosofeggiare senza essere blasfemi sul cibo come espressione polisemica di un plateau di valori da condividere se vissuti nella maniera giusta, una forma di koinè sottintesa.
Esso dice molto di noi in termini di identità forte, di appartenenza a un’epica, contiene un dna barocco, una memoria e le sue infinite sfaccettature, gli echi di radici lontane che si fondono e si pérdono nella sensualità del tempo.
E proprio il tempo che sino a ieri scandiva la nostra vita felice, e i nostri cibi divini, invidiati nell’Olimpo, è la password usata da Elena e Alberto Mora per il “Dizionario dei sapori perduti”, Cairo Editore, Milano 2014, pp. 190, € 10,00 (collana “Extra”).
Il tempo recuperato e restituito alla primitiva semantica, pigro e insonne, che torna dunque a fluire nella sua dimensione più vera, di cui, nonostante il ‘900 degli “ismi” batte ancora in noi, ci siamo sbarazzati con troppa disinvoltura fino a ritrovarci nel deserto del senso a spingere con altri alienati un carrello di cibo-rubbish che mette di pessimo umore e ci fa aggressivi e che adesso invece inseguiamo inquieti cercandolo in un piatto povero, la ricetta con cui siamo stati svezzati, intravedendolo nel cibo dall’odore e sapore unico che solo la nonna buonanima sapeva approntare, che cuoceva lento sul fuoco spandendo aromi perduti e che da allora mai più assaporammo.
Perché il cibo è anche una divinità, lo scopriamo all’improvviso, disgustati da sofisticazioni d’ogni sorta, spesso mortali (fra coloranti, conservanti e altre invenzioni suicide imposte dalla logica del profitto uber alles) e dallo spreco quotidiano (ogni anno una famiglia ne butta via 49 kg., valore 316 €), è portatore di un ricco affollamento semantico, di un sostrato filologico che riemerge, di un denso epos e di complesso etos, oltre che di ricordi sedimentati e di buona salute. E una volta fatto nostro questo assunto, ricca o povera che sia il nostro status, e al di là della formazione culturale, non vogliamo perdere manco un’ora nel recuperare il tempo perduto.
Questo libro fa proprio al caso nostro. E’ una sorta di zibaldone leopardiano colmo di input etici, di dizionario filosofico volterriano (dalla a di acqua alla z di zucchine) che contiene ramificazioni estetiche, di appropriazione di un’anima in senso borgesiano. Sfogliare e gustare lo stesso sapore lieve e dolce delle madeleine con cui Proust credeva di afferrare il senso profondo del tempo, delle cose, dello stare al mondo, è tutt’uno.
La bandella ci dice che i Mora, fratello e sorella, nati a metà anni ‘50, sono piemontesi. Si integrano alla perfezione: lui conserva freschi i ricordi dell’infanzia, quando tutto aveva un sapore più intenso, lei ha la penna facile (già hanno pubblicato, 2012, con lo stesso editore, il “Dizionario dei giochi perduti”).
E dunque, smettete di spingervi per un rancido tramezzino al tonno e pomodoro al baretto di fronte all’ufficio, nella pausa-pranzo, di masturbarvi con la nouvelle cuisine trovando un’affabulazione posticcia, di cercare il ristorante costoso che promette sfracelli e quasi sempre delude (non nel conto!), chiudete gli occhi e come in un flash-back, ecco il tempo andato quando ancora il frigo non esisteva, il gelataio sulla piazzetta la domenica pomeriggio, l’acqua minerale artigianale, il sapore della marmellata, ovvio, fatta in casa, gli asparagi si coltivavano con una ritualità quasi esoterica, il pranzo di Natale era una dolce alchimia, una conquista e tutto aveva un senso e nulla era buttato via (“Avanzi di oggi, pietanza di domani”).
Intrigante il format del libro: scava nella memoria e riporta alla luce lacerti di vissuto, poi fruga nel background e con quegli ingredienti della cucina di ieri stila ricette appetitose quanto creative che, se volessimo, potremmo preparare. Prima di arrenderci definitivamente al cibo-spazzatura, ai suoi aedi, alla volgarità di tempi che con l’alibi di nutrirci ci trasmettono volgari disvalori, e talvolta ci avvelenano anima e corpo, e ci uccidono.