di Francesco Greco - Sublime Twain! Non ha avuto maestri, non ha lasciato eredi (forse uno solo: il peruviano Manuel Scorza). E’ rimasto unico. La sua prosa abbagliante, iconoclasta, stordisce, è sincopata come la musica jazz. La sua ironia a tratti lieve a tratti greve, è una chiave per tentare di capire la commedia umana balzacchiana, l’uomo (a partire da se stesso), gli altri, l’universo, la vita. Capace di ridere di sé, dell’uomo in cui ha semanticamente affollato tutte le debolezze, le fobie, le contraddizioni, i dubbi, le domande che erano, sono e sempre saranno di tutti noi. Perché Mark Twain è l’America e l’America è Mark Twain. Forse solo Walt Withman è più americano di lui. Nella raccolta di racconti “Comportati bene e resterai solo” (sottotitolo: Un manuale cinico sulla dannata razza umana) Piano B Edizioni, Prato, 2014, pp. 200, € 14.00, c’è la summa del suo pensiero disincantato, razionale, irridente: il laboratorio della sua maestria. Che affonda nella sua biografia e i tantissimi mestieri fatti sin da ragazzo che lo hanno reso uomo. Anche se a un certo punto ha cominciato a definirsi “professionista letterario”. Sono racconti scritti (anzi, dettati) nella parte conclusiva della sua parabola. Riflessioni filosofiche sull’uomo e la società, di uno scrittore curioso che scava con accanimento oltre le apparenze, il perbenismo, la facciata, la morale comune. Twain è il Montaigne del Missouri: “…non sono qui per ingannare; sono qui per insegnare”. Con una ferocia e sincerità tipica del vecchio che sa di avere i giorni contati. Ma oltre alla pregnanza filosofica (“un beffardo, sottile e irriverente filosofo cinico… istrione irriverente” lo definisce in prefazione il curatore del libro Alessandro Miliotti, che lo affianca a Socrate e a Diogene Laerzio nel suo cercare l’uomo in pieno giorno armato di lanterna senza temere il ridicolo dei contemporanei, che non dovevano essere diversi da quelli di Mark Twain, e infatti il filosofo greco – ma la Treccani lo porta scrittore - invitava gli uomini a imparare a vivere dai cani) hanno anche un denso pathos antropologico, un ispirato afflato sociologico (“la cosa più preziosa di tutte: l‘invidia di una altro uomo”), un mood genetico, una scansione etica personale, e finanche, a ben guardare, un sostrato psicanalitico (Freud gli è contemporaneo). Twain (pseudonimo di Samuel Langhorne Clemence, nato nel 1835 a Florida e cresciuto ad Hannibal, Missouri) si rivela un profondo conoscitore dell’uomo, il suo animo, i suoi istinti e conformismi, dallo sguardo acuto, implacabile, destrutturante, spietato. “Ho studiato caratteristiche e indole dei cosiddetti animali inferiori, e le ho paragonate con le caratteristiche e indole della razza umana. I risultati mi hanno umiliato… la teoria darwiniana dovrebbe essere abbandonata in favore di una nuova e più vera: quella dell’involuzione dell’uomo in favore dagli animali inferiori”. Scettico negli interstizi dove si infila il refolo della spiritualità anticlericale e blasfema: “Io credo in Dio, l’Onnipotente. Non credo che abbia mai mandato un messaggio a qualcuno tramite qualcun altro, o inviatone uno lui stesso con la sua bocca…”. Sono racconti scritti negli anni più amari della sua parabola: quando ha perduto l’adorata moglie Olivia e tre dei quattro figli (lui se ne andrà nel 1910). Ma proprio quando lo scrittore demolisce l’uomo – anche nei suoi show a cui si presentava vestito di bianco - sembra credere ancora di più in lui, nella sua capacità di essere all’altezza della mission che da millenni porta avanti (“…penso sia probabile che il mondo sia stato creato per l’uomo”). Peccato che il primo a ignorarlo – e Samuel ce lo dice fra le righe - sia proprio l’uomo, a cominciare dal divino Mark Twain.