di Francesco Greco - Più che sulla zecchinetta (introdotta nel XVI secolo dai Lanzichenecchi), scivolarono sull’olio. Bravi a produrlo (con una ricaduta virtuosa sull’economia del territorio), meno a commercializzarlo. Non è facile improvvisarsi imprenditori, sapere di marketing, specie quando si vive quasi tutto il tempo nella capitale del Regno, Napoli, nel lusso e la mondanità (oltre che per tessere rapporti utili a far prosperare gli affari). Anche se si finanziano chiese e conventi “arricchendoli con parati a arredi”, si foraggia il clero, ci si ingrazia la Chiesa sostenendo confraternite, opere pie e quant’altro. Perché all’improvviso, nel 1771, nel feudo di Matino, nel cuore del Salento, si interrompe l’allevamento di cavalli di razza pregiata, “capitale simbolico oggettivato”? Eppure era un’attività di prestigio, che faceva status: tanto che i Marchesi Del Tufo avevano affrescato finemente le scuderie (restaurate nel 2010, attrattiva turistica intrigante).
Partendo da questo indizio, e dal ritrovamento accidentale di un documento, “Ragionamento intorno ai spacciati fedecommessi della casa del Marchese di Matino, in difesa dè Creditori del suo Patrimonio”, opera del loro legale Michele Maria Vecchioni (il processo si tenne nel Sacro Regio Consiglio, così si chiamava il tribunale all’epoca), la saggista Cristina Martinelli tesse una tela affascinante e ben documentata facendoci respirare la fine di un’epoca fondata su aspre diseguaglianze sociali e una stratificazione di classe rigidissima (strane assonanze con questo XXI secolo), la fuoruscita dal feudalesimo e metaforizzando il crepuscolo del nobile Casato, facendolo coincidere con quello dell’aristocrazia del Mezzogiorno, classe parassitaria, corrotta, imbelle, incapace cioè di proiettarsi nei tempi nuovi all’orizzonte (più o meno come la classe politica attuale: corsi e ricorsi di vichiana memoria). Anche se l’unità d’Italia e il trasformismo gattopardesco darà loro un’altra carta: con i Savoia continueranno a possedere tutto il latifondo e a vivere di rendita fondiaria sino al fascismo e nel Sud fino agli anni Sessanta. Tramonto comunque che alcuni storici (fra cui Marco Gatti, da Manduria) retrodatano – i primi sintomi - di qualche secolo: alla fine degli Svevi e l’ascesa, nel Sud, delle dinastie espresse da Francia (Angioini) e Spagna (Aragonesi e Borboni). Predisposte come dna al parassitismo e allo sfruttamento intensivo dei servi della gleba. “I Del Tufo di Matino il declino” (dal Ragionamento di Michele Maria Vecchioni), Edizioni Grifo, Lecce 2014, pp. 190, € 15,00 (grafica di Federico G. Cavallera, collana “Quaderni di Leucadia”) diviene così, letto in controluce, un saggio allo snodo di due epoche, che illumina un passaggio storico semanticamente affollato sotto l’aspetto sociale, politico, economico, culturale. Con l’aristocrazia che naufraga nei debiti (di 102.876.40 8 quello dei Del Tufo: il ducato era diviso il 10 carlini, questo in 10 grana, il grana in 2 tornesi e questo in 6 cavalli: affitteranno le terre con contratti di 4 anni, incassando in anticipo a ogni semestre) è la fine di una classe dirigente fallita, non all’altezza dei compiti assegnati loro dalla Storia, avida di privilegi, ottenuti sulla vita dei sottomessi.
E infatti i Del Tufo non si riprenderanno più, e non poteva essere altrimenti, perché la loro è una profonda crisi culturale, identitaria, non ciclica (“per lo motivo di lacci e spille”) ma sistemica, quindi senza altri sbocchi possibili, opzioni praticabili. Per la cronaca: il documento rintracciato dalla Martinelli (e proposto in copia in appendice) appartiene a un privato, Roberto Delle Castelle (Matino) e prezioso è stato l’aiuto di Antonio Costantino, Soprintendente alla Cultura, anch’egli di Matino, sia per l’accesso che, soprattutto, per l’autentica: aspetto non di poco conto quando si parla di Storia. Perché i nobili di Matino, in una terra vocata alla produzione dell’olio (la città ha oltre 100 frantoi ipogei) si estinguono? Ipotesi di Hervè A. Cavallera in prefazione: “Non basta più la rendita fondiaria per sostenere le spese legate la lusso”. Forse è semplicistica come motivazione: il naufragio dalla Storia è molto più complessa e questa è solo una concausa. ;Una nobiltà accidiosa, culturalmente sorda dunque ai suggerimenti dell’illuminista Antonio Genovesi, che fu purtroppo per i nobili del Sud e di Terra d’Otranto una Cassandra. Di fronte all’opzione di modernizzarsi, rinnovarsi, farsi venire un’idea, preferirono perire. “Quando dunque una famiglia havrà antiquità e splendore insieme, questa senza alcun dubbio potrà dirsi interamente nobil famiglia”. Così non la pensa il Quarto Stato: i rivoluzionari francesi e poi quelli russi lo mostrarono alla Storia. In fondo i nobili di casa nostra salvarono il collo delicato, le manine paffute: i beni andarono in malora, come sempre accade alla farina del diavolo, e loro dovettero andare a lavorare. Era ora!
Partendo da questo indizio, e dal ritrovamento accidentale di un documento, “Ragionamento intorno ai spacciati fedecommessi della casa del Marchese di Matino, in difesa dè Creditori del suo Patrimonio”, opera del loro legale Michele Maria Vecchioni (il processo si tenne nel Sacro Regio Consiglio, così si chiamava il tribunale all’epoca), la saggista Cristina Martinelli tesse una tela affascinante e ben documentata facendoci respirare la fine di un’epoca fondata su aspre diseguaglianze sociali e una stratificazione di classe rigidissima (strane assonanze con questo XXI secolo), la fuoruscita dal feudalesimo e metaforizzando il crepuscolo del nobile Casato, facendolo coincidere con quello dell’aristocrazia del Mezzogiorno, classe parassitaria, corrotta, imbelle, incapace cioè di proiettarsi nei tempi nuovi all’orizzonte (più o meno come la classe politica attuale: corsi e ricorsi di vichiana memoria). Anche se l’unità d’Italia e il trasformismo gattopardesco darà loro un’altra carta: con i Savoia continueranno a possedere tutto il latifondo e a vivere di rendita fondiaria sino al fascismo e nel Sud fino agli anni Sessanta. Tramonto comunque che alcuni storici (fra cui Marco Gatti, da Manduria) retrodatano – i primi sintomi - di qualche secolo: alla fine degli Svevi e l’ascesa, nel Sud, delle dinastie espresse da Francia (Angioini) e Spagna (Aragonesi e Borboni). Predisposte come dna al parassitismo e allo sfruttamento intensivo dei servi della gleba. “I Del Tufo di Matino il declino” (dal Ragionamento di Michele Maria Vecchioni), Edizioni Grifo, Lecce 2014, pp. 190, € 15,00 (grafica di Federico G. Cavallera, collana “Quaderni di Leucadia”) diviene così, letto in controluce, un saggio allo snodo di due epoche, che illumina un passaggio storico semanticamente affollato sotto l’aspetto sociale, politico, economico, culturale. Con l’aristocrazia che naufraga nei debiti (di 102.876.40 8 quello dei Del Tufo: il ducato era diviso il 10 carlini, questo in 10 grana, il grana in 2 tornesi e questo in 6 cavalli: affitteranno le terre con contratti di 4 anni, incassando in anticipo a ogni semestre) è la fine di una classe dirigente fallita, non all’altezza dei compiti assegnati loro dalla Storia, avida di privilegi, ottenuti sulla vita dei sottomessi.
E infatti i Del Tufo non si riprenderanno più, e non poteva essere altrimenti, perché la loro è una profonda crisi culturale, identitaria, non ciclica (“per lo motivo di lacci e spille”) ma sistemica, quindi senza altri sbocchi possibili, opzioni praticabili. Per la cronaca: il documento rintracciato dalla Martinelli (e proposto in copia in appendice) appartiene a un privato, Roberto Delle Castelle (Matino) e prezioso è stato l’aiuto di Antonio Costantino, Soprintendente alla Cultura, anch’egli di Matino, sia per l’accesso che, soprattutto, per l’autentica: aspetto non di poco conto quando si parla di Storia. Perché i nobili di Matino, in una terra vocata alla produzione dell’olio (la città ha oltre 100 frantoi ipogei) si estinguono? Ipotesi di Hervè A. Cavallera in prefazione: “Non basta più la rendita fondiaria per sostenere le spese legate la lusso”. Forse è semplicistica come motivazione: il naufragio dalla Storia è molto più complessa e questa è solo una concausa. ;Una nobiltà accidiosa, culturalmente sorda dunque ai suggerimenti dell’illuminista Antonio Genovesi, che fu purtroppo per i nobili del Sud e di Terra d’Otranto una Cassandra. Di fronte all’opzione di modernizzarsi, rinnovarsi, farsi venire un’idea, preferirono perire. “Quando dunque una famiglia havrà antiquità e splendore insieme, questa senza alcun dubbio potrà dirsi interamente nobil famiglia”. Così non la pensa il Quarto Stato: i rivoluzionari francesi e poi quelli russi lo mostrarono alla Storia. In fondo i nobili di casa nostra salvarono il collo delicato, le manine paffute: i beni andarono in malora, come sempre accade alla farina del diavolo, e loro dovettero andare a lavorare. Era ora!