“Spirale”, versi per liberare il corpo e la terra
di Francesco Greco - “La poesia - sosteneva Charles Bukowski - deve dire molto con poche parole”. Pare tenere a mente questa massima – magari anche inconsciamente – Eugenio Guagnano (Nardò, 1988), in questa sillege poetica d’esordio, “Spirale”, Edizioni Esperidi, Monteroni di Lecce 2014, pp. 72. € 7.00 (con una dotta introduzione di Maria Conte).
Ma ha mandato a memoria anche la lezione di due grandi che considera i suoi maestri: Baudelaire e Auden. La levità dell’albatros del poeta dei “Fiori del male” e l’allergia a ogni formattazione dell’individuo, una delle password interne della poesia di W. H. Auden (poeta peraltro amato anche da Bukowski).
Ecco finalmente un poeta che oltre a scrivere legge anche i classici – e i versi sono permeati dalla loro eco - in un panorama di autori molti dei quali si vantano addirittura di non leggere niente, per non sporcare lo stile è la ridicola motivazione. Come se Leopardi avesse potuto diventare un grande senza studiare i classici latino e greco.
E dunque, Guagnano (che studia Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Lecce, oltre a occuparsi di teatro e di musica), pur se giovanissimo, ha già un suo timbro personale, un suo laboratorio poetico. In queste poesie che possono dirsi di formazione, divise in tre scomparti: Inquietudine, Trasgressione e Rigenerazione, centrali sono il corpo e la natura. Che il poeta assume come chiavi di decodificazione del mistero e della solitudine in cui l’uomo è avvolto, per tentare di accostarsi e di penetrarli, leggendoli in senso maieutico.
“Fiuto la terra… Lecco la terra, / cerco invano un nutrimento… Scavo e scavo. / Desidero sentire le sue viscere / attraversarmi l’anima.” (“Stigmate”). “Senti l’odore dell’umida terra rossa” (“Libertà”).” La terra dunque vista come una sorta di grembo materno da cui tutto nasce e che ci protegge dall’angoscia, dal vuoto, dal nichilismo del nostro tempo.
Ma anche il corpo, per Guagnano, è pregno di significati significanti: “Siamo figli della carne, / quella carne che divora, sostiene / quella carne che mai ci rinnega” (“Figli incoscienti”). Corpo e natura sono assunti come valori razionali per l’uomo che cerca di librarsi oltre le umane debolezze e i conformismi: “Ho sciolto tutti i nodi, / ho riempito il silenzio… Sono libero da pensieri…” (“Me Libero”), ma anche, extrema ratio, come relitti cui il naufrago del III Millennio s’aggrappa per non soccombere sotto il maglio, la “spirale” del relativismo, dei disvalori, del disincanto: “Soli, siamo tutti soli. / Un fiore è sempre solo, / ha chiuso i petali al vento. / Una tigre è sempre sola, / non corre più per la carne. / Un uomo è sempre solo…” (“Soli”, forse la poesia più bella).