Ciao Rosi, patriarca del cinema italiano

di Francesco Greco. ROMA – L’avevo incontrato l’ultima volta alla festa del suo 91mo compleanno, 15 novembre 2013. Si sparse la voce che lo avrebbe festeggiato in un localetto a due passi dall’Auditorium della Musica dove si svolge il Festival del Cinema e col regista pugliese Massimo Fersini (“Totem Blue”, 2010) - nella sera fredda, bagnata da una pioggerellina ispida e cattiva, per respirare un attimo dalla raffica di film, photo-call, red-carpet, casting, conferenze-stampa, interviste, i pezzi da scrivere in tempo reale - ci rifugiammo in quella birreria piccola e accogliente, con i tavolini e le sedie arte rustica. Francesco Rosi era seduto a un angolo, a un tavolino.
Era massiccio, spalle larghe, grandi mani: metteva soggezione, almeno a me. Aveva l’aria del vecchio patriarca saggio, di un uomo intellettualmente onesto che ha attraversato mille tempeste, ma che è riuscito a conservare un cuore puro e lo sguardo curioso del bambino. La mattina era uscita un’intervista su una pagina intera sull’”Unità” e avevo mille domande da fargli. Scivolando nella folla compatta, mi avvicinai e anche io dissi “Auguri!”. Ma lui non mi sentì. Volevo ringraziarlo per averci insegnato il cinema civile, militante, reale, ma la folla mi ricacciò lontano. Magari parlare di Garcìa-Màrquez, il mio scrittore preferito (era di casa in via Gregoriana dove Rosi ha abitato), da cui trasse il film “Cronaca di una morte annunciata”. Chiedergli se “Le mani sulla città” è ancora attuale, com’era Gian Maria Volontè, un mito, come uomo. Una vecchia signora si avvicinò e chiese: “Maestro, qual è il segreto del suo cinema?”. Rosi esitò una attimo, sorrise e rispose: “E’ scritto tutto nel libro che abbiamo fatto con Giuseppe…”. Notai la lieve inflessione napoletana. Giuseppe era il regista Tornatore, che era lì a due passi e lo accudiva devoto come il figlio col padre anziano. C’era anche Giuseppe Piccioni, altro regista romano, Ettore Scola, Francesca Archibugi e qualcun altro. Scambiai due parole con Tornatore, mi parlò del suo nuovo film (uscito in questo giorni). Era piccoletto, lo avevo immaginato più alto.
Poi con Piccioni. Ci scambiammo le mail. Mi accorsi che molti si facevano selfie con Rosi. Nel locale si festeggiava la vittoria di “Tir” all’ottava edizione del Festival. Servivano vini, prosciutti e formaggi friulani. L’altro festeggiato era il protagonista del film, Branko ZavrÅ¡an. Due chiacchiere anche con lui, autista di un Tir scagliato in Europa che non riesce più a tornare a casa. Apologo lacerante sulla solitudine e l’incomunicabilità in cui siamo avvolti, un bozzolo malefico di rapporti atomizzati, alienati. Uscimmo nel cortile a respirare un po’ d’aria, aveva smesso di piovere. Anche fuori le solite facce da cinema: aspiranti registi, attori, attrici. E quando tornammo dentro Rosi non c’era più: il suo tavolino all’angolo era vuoto. Ormai ubriachi e sazi, a me e Massimo non restò che aspettare l’ultimo autobus della notte e andare a dormire. Ciao Rosi, maestro di un cinema che non c’è più, di un mondo svanito che possiamo solo immaginare, in cui vorremmo tornare oggi che siamo finiti nella palude disincantata e cinica di un tempo senza passioni, conformista e l’uomo non sa più pensare, rischiare, amare.

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