di Francesco Greco - Si stava meglio quando si stava peggio? E’ la tesi – ben documentata con materiali d’archivio - di “Correva l’anno…” (Storia amministrativa Salvese nel Ventennio Fascista, 1922-1943), dello storico pugliese Gino Meuli, Edizioni Panico, Galatina 2014, pp. 198, s. i. p.
Da Renzo De Felice a Denis Mack Smith, gli studiosi si chiedono da sempre di che natura era il consenso (almeno nella prima parte del Ventennio) degli italiani al fascismo. Estorto? Spontaneo? Di nicchia? Di massa? Conformista? Posto che le adunate oceaniche erano molto scenografiche, come nasceva l’adesione e la militanza? Nella vita sociale, quotidiana? E come sedimentava nelle coscienze il sentimento che rese coesa una Nazione?
Questo libro è indovinato perché lo spiega ampiamente attraverso atti ufficiali, le leggi che partendo dal centro giungevano in periferia e che prefetti e podestà facevano applicare devotamente. Da questa marea di carte consultate emerge senza dubbi né pregiudizi ideologici che lo stato sociale e assistenziale funzionava a perfezione, come una macchina ben rodata. Sullo sfondo di una coesione sociale che oggi non c’è più. E’ il segreto del fascismo, l’aleph cercato dagli storici? Forse.
Molti amministratori rinunciavano al gettone di presenza, vivevano l’impegno come una mission (oggi che tutti sono attaccati al “rimborso” di cui fanno un uso talvolta scandaloso, se non perverso). Ma dove il fascismo mostrò la sua razionalità vincente era nella conoscenza dell’anima degli italiani. Il centro era in stretta osmosi con le periferie. Sapeva dei bisogni delle masse popolari e tentava di soddisfarli come poteva. La gente aveva ascolto presso le istituzioni. Oggi anche un assessore di paese se la tira e ti manda a fare.
In tempi in cui il welfare è stato disfatto, in cui abbiamo diritti nominali, virtuali - e comunque sono solo per i ricchi - fa impressione apprendere dallo storico (che ha già dato alle stampe alcune pubblicazioni politicamente scorrette, fuori dal coro e dal pregiudizio, fra cui, 17 anni fa, “Epistolario di un sogno”, le lettere che gli italiani scrivevano al Duce, Edizioni dell’Iride, Tricase) che durante il Ventennio lo stato sociale funzionava con tutti.
E se il Comune di Salve cui Meuli (nella foto quando lavorava come maestro elementare, anni ‘60) fa riferimento - nel sud Salento Leccese - carte alla mano, lo studio può essere assunto a modello, a metafora di quel che accadeva in quel tempo su cui ancora si dovrebbe indagare, dopo aver raspato la patina ideologica che lo ha impedito. E si può agevolmente concludere che forse è proprio il rodaggio preciso di questi meccanismi sociali, profondamente condivisi, dettati da un senso di equità e giustizia sociale il “cemento” che tenne insieme l’Italia nel Ventennio, procurando al governo un consenso spontaneo, di massa, specie nel Sud contadino che aveva già vissuto il disincanto delle promesse dei Savoia dopo il 1860 (terre mai distribuite, restate nelle mani avide degli agrari, divenuti unitari, alla Gattopardo, “cambiare tutto per non cambiare niente”).
Un solidarismo di matrice cattolica, sublimato nell’etica del mondo contadino, la sua anima profonda, la spiritualità istintiva furono dunque il collante che tenne insieme il popolo italiano dal 1922 sino alla tragedia della guerra. L’attaccamento alla terra, alle radici, che divenne amor patrio, identitario, abilmente sfruttato da Mussolini, fu una delle chiavi per capire quell’universo, l’identificazione nel capo, il senso di collettività stratificato, di coesione, specie nelle classi povere (cosa che i Savoia non avevano saputo fare, soprattutto al Sud).
I bisogni di un mondo minimalista, che vive di poco, ma nel cui cuore è radicato un senso quasi religioso di comunità, una coscienza forte e una memoria condivisa sono intercettati e soddisfatti senza indugi. Appena il vertice della piramide apprende, o analizza le situazioni, lo statu quo, la base è soddisfatta, sia nella sua interezza che individualmente, come singoli e come famiglia. Perché il senso della famiglia fu uno degli archetipi socio-culturali che resse il Ventennio.
Ma anche l’infrastrutturazione del Paese che tentò di modernizzarsi (trasporti, rete elettrica, rete idrica, ecc.), e ovviamente il welfare. Una politica che si fa più intensa nella seconda parte del Ventennio, quando occorre coagulare il consenso per gli eventi che incombono. Fra 1933 e 1934 nascono Inps e Inail. 1935: ecco le sanzioni delle Nazioni Unite per l’occupazione dell’Etiopia. Mussolini lancia l’operazione “Oro alla Patria”. Il 1936-37 è l’anno degli assegni famigliari. Degli assegni di natalità e nuzialità distribuiti a pioggia. Sussidi di disoccupazione e prestiti alle coppie che non possono affrontare le spese per le nozze. Ma anche della legge con cui il regime vietava alcuni lavori ai minorenni a tutela della loro salute psico-fisica. Attraverso le associazioni religiose poi si praticava il “soccorso caritativo” per quelli che oggi chiameremmo gli incapienti. Ogni tanto c’erano sanatorie per certi mestieri: il sagrestano di Salve ebbe dal Comune 100 lire, come l’organista, mentre a Ruggiano, la frazione, entrambi 50.
Ne 1941 il Duce decise che i tributi versati dalle famiglie povere e numerose andavano rimborsati e i podestà procedettero con zelo all’operazione-restituzione (“provvedere immediatamente”, non come oggi che passano anni e devi fare causa). Ecco una foto del 1935: signore in visone, elegantissime, e mariti col vestito della festa, incravattati, in coda per l’operazione “Date oro alla Patria” (a Salve, chissà perché, dalle 9 alle 10 di sera). La facessero oggi nessuno darebbe un soldo bucato a una casta di provinciali e parvenu da romanzo criminale che li spenderebbe in orge.
1928, il regime ordina: tutti a scuola! Con la riforma-Gentile, da cenerentola l’Italia si pone all’avanguardia dell’Europa in tema di didattica innovativa. Dal centro ai confini dell’impero: stessi anni, il Comune di Salve si preoccupa per dare alla comunità un’ostetrica “condotta” e si stanziano i soldi necessari (500 lire). Oggi si stanziano denari virtuali, spesso a chi già li ha (80 €).
Sono aspetti del Ventennio che fanno riflettere, specie oggi che la società è atomizzata, schizofrenica, liquida e ognuno si arrangia come può, la famiglia non esiste più, regna il pensiero unico e debole e il solipsismo più bieco, che le istituzioni sono sorde a tutto e tutti, racconta favole amare e si vive di annunci volgari, di slogan vuoti, di demagogia (coi cortigiani che elogiano chi “comunica” questo baratro), di tributi lacrime e sangue che il centro obbliga a estorcere alla periferia, ovvio, dopo aver dichiarato che non mette le mani nelle tasche dei cittadini.
Nel post-fascismo, i partiti, Dc in testa, hanno svenduto un patrimonio di valori segnando l’antropologia intima di un popolo; infrastrutture zero, ladrocini di Stato e non, saccheggi, lobby, logge, massonerie, mafie hanno rubato tutto, anche la speranza al popolo. Mettendosi con cinismo al servizio di poteri occulti e criminali. Configurandosi come una casta di nullità e di parassiti. Dai pentapartiti a Mani Pulite, sino al massone rigorista Monti per finire a Renzi e alle sue sciocche passerelle, all’Italia e agli italiani non è rimasto più niente. La fuga in massa dal voto è la conferma plastica di una decadenza antropologica, morale, culturale, di civiltà. Di cui si occuperanno gli storici del prossimo secolo. Speriamo con la stessa in modo onestà intellettuale di Gino Meuli, per il prof. Hervè A. Cavallera (Università del Salento, che cura la prefazione) “infaticabile custode e narratore della storia del suo Comune” consegnandoci un documento solo all’apparenza “minore”, di “cronaca di storia locale” (di “lettura fluida e piacevole” dice nell’introduzione il sindaco Vincenzo Passaseo), ma dove, a voler leggere fra le righe “vibrano passioni e risentimenti, velleità sociali ed urgenze di vita”. Doti di un popolo nonostante tutto vivo, padrone del suo destino, prima che il diluvio di populismo e demagogia delle caste insaziabili, avide, ignoranti e corrotte lo sommergesse con le sue acque putride, il fatalismo contagioso, le parole defraudate di senso, il deserto dell’animo, il darwinismo sociale alla homo homini lupus: mors tua vita mea.
Da Renzo De Felice a Denis Mack Smith, gli studiosi si chiedono da sempre di che natura era il consenso (almeno nella prima parte del Ventennio) degli italiani al fascismo. Estorto? Spontaneo? Di nicchia? Di massa? Conformista? Posto che le adunate oceaniche erano molto scenografiche, come nasceva l’adesione e la militanza? Nella vita sociale, quotidiana? E come sedimentava nelle coscienze il sentimento che rese coesa una Nazione?
Questo libro è indovinato perché lo spiega ampiamente attraverso atti ufficiali, le leggi che partendo dal centro giungevano in periferia e che prefetti e podestà facevano applicare devotamente. Da questa marea di carte consultate emerge senza dubbi né pregiudizi ideologici che lo stato sociale e assistenziale funzionava a perfezione, come una macchina ben rodata. Sullo sfondo di una coesione sociale che oggi non c’è più. E’ il segreto del fascismo, l’aleph cercato dagli storici? Forse.
Molti amministratori rinunciavano al gettone di presenza, vivevano l’impegno come una mission (oggi che tutti sono attaccati al “rimborso” di cui fanno un uso talvolta scandaloso, se non perverso). Ma dove il fascismo mostrò la sua razionalità vincente era nella conoscenza dell’anima degli italiani. Il centro era in stretta osmosi con le periferie. Sapeva dei bisogni delle masse popolari e tentava di soddisfarli come poteva. La gente aveva ascolto presso le istituzioni. Oggi anche un assessore di paese se la tira e ti manda a fare.
In tempi in cui il welfare è stato disfatto, in cui abbiamo diritti nominali, virtuali - e comunque sono solo per i ricchi - fa impressione apprendere dallo storico (che ha già dato alle stampe alcune pubblicazioni politicamente scorrette, fuori dal coro e dal pregiudizio, fra cui, 17 anni fa, “Epistolario di un sogno”, le lettere che gli italiani scrivevano al Duce, Edizioni dell’Iride, Tricase) che durante il Ventennio lo stato sociale funzionava con tutti.
E se il Comune di Salve cui Meuli (nella foto quando lavorava come maestro elementare, anni ‘60) fa riferimento - nel sud Salento Leccese - carte alla mano, lo studio può essere assunto a modello, a metafora di quel che accadeva in quel tempo su cui ancora si dovrebbe indagare, dopo aver raspato la patina ideologica che lo ha impedito. E si può agevolmente concludere che forse è proprio il rodaggio preciso di questi meccanismi sociali, profondamente condivisi, dettati da un senso di equità e giustizia sociale il “cemento” che tenne insieme l’Italia nel Ventennio, procurando al governo un consenso spontaneo, di massa, specie nel Sud contadino che aveva già vissuto il disincanto delle promesse dei Savoia dopo il 1860 (terre mai distribuite, restate nelle mani avide degli agrari, divenuti unitari, alla Gattopardo, “cambiare tutto per non cambiare niente”).
Un solidarismo di matrice cattolica, sublimato nell’etica del mondo contadino, la sua anima profonda, la spiritualità istintiva furono dunque il collante che tenne insieme il popolo italiano dal 1922 sino alla tragedia della guerra. L’attaccamento alla terra, alle radici, che divenne amor patrio, identitario, abilmente sfruttato da Mussolini, fu una delle chiavi per capire quell’universo, l’identificazione nel capo, il senso di collettività stratificato, di coesione, specie nelle classi povere (cosa che i Savoia non avevano saputo fare, soprattutto al Sud).
I bisogni di un mondo minimalista, che vive di poco, ma nel cui cuore è radicato un senso quasi religioso di comunità, una coscienza forte e una memoria condivisa sono intercettati e soddisfatti senza indugi. Appena il vertice della piramide apprende, o analizza le situazioni, lo statu quo, la base è soddisfatta, sia nella sua interezza che individualmente, come singoli e come famiglia. Perché il senso della famiglia fu uno degli archetipi socio-culturali che resse il Ventennio.
Ma anche l’infrastrutturazione del Paese che tentò di modernizzarsi (trasporti, rete elettrica, rete idrica, ecc.), e ovviamente il welfare. Una politica che si fa più intensa nella seconda parte del Ventennio, quando occorre coagulare il consenso per gli eventi che incombono. Fra 1933 e 1934 nascono Inps e Inail. 1935: ecco le sanzioni delle Nazioni Unite per l’occupazione dell’Etiopia. Mussolini lancia l’operazione “Oro alla Patria”. Il 1936-37 è l’anno degli assegni famigliari. Degli assegni di natalità e nuzialità distribuiti a pioggia. Sussidi di disoccupazione e prestiti alle coppie che non possono affrontare le spese per le nozze. Ma anche della legge con cui il regime vietava alcuni lavori ai minorenni a tutela della loro salute psico-fisica. Attraverso le associazioni religiose poi si praticava il “soccorso caritativo” per quelli che oggi chiameremmo gli incapienti. Ogni tanto c’erano sanatorie per certi mestieri: il sagrestano di Salve ebbe dal Comune 100 lire, come l’organista, mentre a Ruggiano, la frazione, entrambi 50.
Ne 1941 il Duce decise che i tributi versati dalle famiglie povere e numerose andavano rimborsati e i podestà procedettero con zelo all’operazione-restituzione (“provvedere immediatamente”, non come oggi che passano anni e devi fare causa). Ecco una foto del 1935: signore in visone, elegantissime, e mariti col vestito della festa, incravattati, in coda per l’operazione “Date oro alla Patria” (a Salve, chissà perché, dalle 9 alle 10 di sera). La facessero oggi nessuno darebbe un soldo bucato a una casta di provinciali e parvenu da romanzo criminale che li spenderebbe in orge.
1928, il regime ordina: tutti a scuola! Con la riforma-Gentile, da cenerentola l’Italia si pone all’avanguardia dell’Europa in tema di didattica innovativa. Dal centro ai confini dell’impero: stessi anni, il Comune di Salve si preoccupa per dare alla comunità un’ostetrica “condotta” e si stanziano i soldi necessari (500 lire). Oggi si stanziano denari virtuali, spesso a chi già li ha (80 €).
Sono aspetti del Ventennio che fanno riflettere, specie oggi che la società è atomizzata, schizofrenica, liquida e ognuno si arrangia come può, la famiglia non esiste più, regna il pensiero unico e debole e il solipsismo più bieco, che le istituzioni sono sorde a tutto e tutti, racconta favole amare e si vive di annunci volgari, di slogan vuoti, di demagogia (coi cortigiani che elogiano chi “comunica” questo baratro), di tributi lacrime e sangue che il centro obbliga a estorcere alla periferia, ovvio, dopo aver dichiarato che non mette le mani nelle tasche dei cittadini.
Nel post-fascismo, i partiti, Dc in testa, hanno svenduto un patrimonio di valori segnando l’antropologia intima di un popolo; infrastrutture zero, ladrocini di Stato e non, saccheggi, lobby, logge, massonerie, mafie hanno rubato tutto, anche la speranza al popolo. Mettendosi con cinismo al servizio di poteri occulti e criminali. Configurandosi come una casta di nullità e di parassiti. Dai pentapartiti a Mani Pulite, sino al massone rigorista Monti per finire a Renzi e alle sue sciocche passerelle, all’Italia e agli italiani non è rimasto più niente. La fuga in massa dal voto è la conferma plastica di una decadenza antropologica, morale, culturale, di civiltà. Di cui si occuperanno gli storici del prossimo secolo. Speriamo con la stessa in modo onestà intellettuale di Gino Meuli, per il prof. Hervè A. Cavallera (Università del Salento, che cura la prefazione) “infaticabile custode e narratore della storia del suo Comune” consegnandoci un documento solo all’apparenza “minore”, di “cronaca di storia locale” (di “lettura fluida e piacevole” dice nell’introduzione il sindaco Vincenzo Passaseo), ma dove, a voler leggere fra le righe “vibrano passioni e risentimenti, velleità sociali ed urgenze di vita”. Doti di un popolo nonostante tutto vivo, padrone del suo destino, prima che il diluvio di populismo e demagogia delle caste insaziabili, avide, ignoranti e corrotte lo sommergesse con le sue acque putride, il fatalismo contagioso, le parole defraudate di senso, il deserto dell’animo, il darwinismo sociale alla homo homini lupus: mors tua vita mea.