Sul “Logheion” di Vetusta pulsa il cuore dell’uomo d’oggi
di Francesco Greco - Consumate le supponenze ideologiche delle neo-avanguardie (Sanguineti, Pagliarani, Majorino, Insana, ecc.)e prosciugate le istanze neoclassiche (Saba, Bellezza, Pecora, Penna, Campana e qualcun altro), il Novecento è tramontato e la poesia nostrana galleggia come ninfa in uno stagno di noia, sospesa fra l’autoreferenzialità antimoderna e polluzioni notturne di versi che non lasceranno traccia. Un diluvio di parole vuote.
Si resta pertanto confusi (“Frastuono d’incontro per comune gioire, / al par di baccanale ch’in ambrosia annega…”) quando sul palcoscenico (logheion) irrompe una voce nuova, diversa, insospettata, che porta scompiglio, disordine. Specie poi se questa novità porta il nome di un ventunenne meridionale alla sua prima opera organica. La raccolta, 64 poesie, divise in due sezioni: Caos e Cosmo (“iniziate a scrivere per gioco in una sera di dicembre del 2011”) si intitola “Logheion”, editore Lulu.com, pp. 70, s.i.p.), il poeta si firma Vetusta e dietro questo curioso pseudonimo si cela uno studente universitario foggiano (Lettere Moderne a Foggia) nato nel 1993.
Vetusta ci comunica la sua rappresentazione e visione del mondo, l’uomo, le cose, i destini, le solitudini cosmiche, la vita e la morte, il dolore e il sorriso, dal magma pulsante del cosmo, dalla laguna dei sentimenti che proviamo nella nostra non lunga parabola, dal cuore più segreto dell’uomo, dell’universo.
Con “Raziocinio irrazionale”, escatologico, il suo sguardo si spinge oltre le apparenze, le finzioni quotidiane in cui siamo avvolti, il gioco delle banalità, le illusioni che ci tengono in vita “sfrenando la voglia di battere il tempo”.
Con “Occhi sbarrati sognanti il domani”, Vetusta ci offre le sue parole denudate, scarnificate, dilatate sino al loro più intimo dna, senza possibilità di una altra decodificazione (“Schiavi dei sensi, succubi della materia”). Versi buttati giù, come dire, d’istinto, di pancia, a viscere calde (“inpunita sciatteria di un caos troppo quieto”). Sospesi su un livello onirico, pregni di neo-avanguardia, ma segnati anche da una nostalgia arcadica, enunciata dal ricorso a una stile neo-classico (“Disincanto di torture gronda giù dai muri, / s’incontrano in raduno follia e raziocinio.”) risolta in una koinè originale.
Come se le parole si accoppiassero: verbi e aggettivi, avverbi e sostantivi, ecc. Per dare vita a un delizioso giochi di specchi, di echi, di sottintesi, di intuizioni. Che danno corpo a un’altra filologia (“Oblio di me in muraria prigionia”), un mood inedito da brodo primordiale, una ricca semantica (“apparente realtà mutata da veli”) che anche attraverso un intrigante “gioco” letterario, svelano il cuore dell’uomo del III millennio.
Si resta pertanto confusi (“Frastuono d’incontro per comune gioire, / al par di baccanale ch’in ambrosia annega…”) quando sul palcoscenico (logheion) irrompe una voce nuova, diversa, insospettata, che porta scompiglio, disordine. Specie poi se questa novità porta il nome di un ventunenne meridionale alla sua prima opera organica. La raccolta, 64 poesie, divise in due sezioni: Caos e Cosmo (“iniziate a scrivere per gioco in una sera di dicembre del 2011”) si intitola “Logheion”, editore Lulu.com, pp. 70, s.i.p.), il poeta si firma Vetusta e dietro questo curioso pseudonimo si cela uno studente universitario foggiano (Lettere Moderne a Foggia) nato nel 1993.
Vetusta ci comunica la sua rappresentazione e visione del mondo, l’uomo, le cose, i destini, le solitudini cosmiche, la vita e la morte, il dolore e il sorriso, dal magma pulsante del cosmo, dalla laguna dei sentimenti che proviamo nella nostra non lunga parabola, dal cuore più segreto dell’uomo, dell’universo.
Con “Raziocinio irrazionale”, escatologico, il suo sguardo si spinge oltre le apparenze, le finzioni quotidiane in cui siamo avvolti, il gioco delle banalità, le illusioni che ci tengono in vita “sfrenando la voglia di battere il tempo”.
Con “Occhi sbarrati sognanti il domani”, Vetusta ci offre le sue parole denudate, scarnificate, dilatate sino al loro più intimo dna, senza possibilità di una altra decodificazione (“Schiavi dei sensi, succubi della materia”). Versi buttati giù, come dire, d’istinto, di pancia, a viscere calde (“inpunita sciatteria di un caos troppo quieto”). Sospesi su un livello onirico, pregni di neo-avanguardia, ma segnati anche da una nostalgia arcadica, enunciata dal ricorso a una stile neo-classico (“Disincanto di torture gronda giù dai muri, / s’incontrano in raduno follia e raziocinio.”) risolta in una koinè originale.
Come se le parole si accoppiassero: verbi e aggettivi, avverbi e sostantivi, ecc. Per dare vita a un delizioso giochi di specchi, di echi, di sottintesi, di intuizioni. Che danno corpo a un’altra filologia (“Oblio di me in muraria prigionia”), un mood inedito da brodo primordiale, una ricca semantica (“apparente realtà mutata da veli”) che anche attraverso un intrigante “gioco” letterario, svelano il cuore dell’uomo del III millennio.