di Francesco Greco - Un must. Che spunta da ogni dove. Quella testa di frutti succosi, cereali maturi e ortaggi invitanti: comunicano dolci armonie, l'appagamento dello sguardo, il palato, i sensi. Negli anfratti più segreti del nostro immaginario, nella specifico mediatico è un topos. Fellinianamente, poco sapevamo, tutto immaginavamo del background di opera e autore, Giovanni Arcimboldi, e della sua epoca. A intercettare la curiosità Ketty Magni in “Arcimboldo, gustose passioni”, Cairo editore, Milano 2015, pp. 201, euro 15.00.
La scrittrice brianzola dagli occhi blu è a suo agio nel romanzo storico, ormai il suo dna e dopo aver frequentato la narrativa classica, evidentemente come scuola di formazione, ha trovato una personale password che consente di frequentarlo con assoluta padronanza di plot e di mood. Ci ha dato opere significative (“Teodolinda il senso della meraviglia”, 2009, “Adelaide imperatrice del lago”, 2011, “Il Principe dei cuochi”, 2011 e “Il cuoco del Papa”, 2013) e altre ce ne darà in futuro.
Possiede infatti velocità di scrittura, unita alla bizantina documentazione delle interfacce dei personaggi mutuata quasi dai monaci certosini. E conferma tali premesse anche in questo romanzo, che sta presentando in tutt'Italia ed extra moenia (è tornata da Lugano).
Narcisista come tutti gli artisti (anche nella cura del corpo), deciso, volitivo, in carriera, il pittore incarna un affollamento semantico del suo tempo, ne raggruma tutti i topoi, gli umori e le ansie, le passioni e le illusioni, le speranze e le sconfitte, etica ed estetica. La parabola esistenziale e artistica di Arcimboldo (così decise di farsi chiamare quando – e avvenne assai presto emancipandosi, figlio d'arte, dal padre Biagio (“la pittura è una poesia muta”, cita da Leonardo) e anche da una Milano troppo angusta - uscì a navigare il mare aperto che non ammette ripensamenti, balbettii, mollezze, si dispiega nel cuore vivo del Rinascimento, sullo sfondo di una guerra di religione, l'ennesima dall'anno Mille, di cui si lascia trasparire fugaci immagini, con i Turchi del Magnifico Solimano che rimestano alle frontiere, di terra e di mare (“agguerriti con le loro navi”, “pronti al combattimento”). E lo erano anche le forze cattoliche: Lepanto è alle porte.
Capitoli brevi e incalzanti, rapsodici, prosa balzacchiana, rapide e sapide pennellate con cui la Magni coglie l'anima barocca di un tempo alla fin fine non dissimile dal nostro (Milano era già “frettolosa”), cattura il pathos magmatico, maieutico che annunzia i Lumi che di lì a poco incendieranno l'umanità.
Come l'amor cortese del genio abile ufficio stampa di se stesso per la nobile Ludovica Crivelli “tormento amoroso senza tregua”, “delicato asfodelo”, “si sentiva mescolato a lei da un'affinità di idee” (ma anche per la trovatella Ortensia “regina di tutti gli orti”, sottratta a un destino di miseria) innerva gli archetipi del Romanticismo che verrà.
Il romanzo è un affresco sontuoso di un momento della storia europea dalla forte, dominante componente escatologica: le Americhe sono state appena trovate (dal “Nuovo Mondo” arrivano “scoperte botaniche” che suscitano entusiasmo), Lepanto (1571), madre di tutte le battaglie, incombe sull'Europa (da Carlo Magno a Carlo V il timone cattolico (“si raccomandò alla devozione dei santi”) è sempre ben governato, le smanie iconoclaste del “Puer Apuliae” formattate per la gioia di Roma).
Per cui la vita di un artista di dilatata sensibilità, “spirito eclettico”, vanitoso, alla ricerca “di sensazioni forti”, capace di esprimere una “passione d'animo”, ossessionato dalla bellezza e l'armonia (che chiama “bizzarrie” e “capricci”) e che – nello spirito del suo tempo si ispira al codice cavalleresco - si fa leggere come saggio storico pregno di un intenso plateau di forme e colori, nel contesto delle corti europee “crogiolo di culture”, “luogo di pace e di convivialità” (e oggi?).
Nella smania di spingersi oltre l'orizzonte, “nessun compito pareva precluso”, verso “una fama al di là di ogni tempo”, si declina la vivacità di un continente e dell'uomo post-medioevale, ansioso di sbarazzarsi di fardelli ingombranti, di misurarsi “a metà strada tra gioia e ironia” con sfide eccitanti in un mondo di forte competizione, per dominare il proprio destino: “percepì che avrebbe dovuto giocarsi l'avvenire con azzardo”, per lasciare una “traccia indelebile”. Nella Milano bigotta del Cardinale Borromeo (“si era anche prodigato per chiudere i postriboli”), calunniata dalla peste, infebbrata dalla mistica del lavoro, il romanzo muove col pittore sulla soglia della vecchiaia, nella casa-bottega dov'è tornato cosciente della fine “carico di onori e di gloria”, preda di un travaglio spirituale per un'improbabile rimodulazione, ancora “con l'ardore del sole sulla pelle” e avido di elogi, che traccia – in trance quasi come in un'autoanalisi - il bilancio di un'esistenza spesa fra Vienna, Praga e Milano (dove si allevano i bachi da seta), solcata dall'epos respirato alla corte asburgica, fra gli imperatori (il “folle” Rodolfo II si “circondava di personaggi che trattavano di magia, di alchimia...”) e gli artisti, le dame e i cavalieri, la mondanità, le feste, i tornei, il teatro, le mascherate, i matrimoni reali, il mecenatismo, il gusto ossessivo per il bello in cui si cerca l'immortalità. Nello sguardo di Arcimboldo, “divinità cosmopolita”, alla fine c'è il Rinascimento.
Ketty Magni ci conduce con mano ferma in questo mondo, ci fa respirare la sua essenza segreta che stordisce, che sa di tulipano e di lillà, contaminare dai suoi odori e sapori, piaceri e saperi. E' un universo elitario, esclusivo, dominato dal darwinismo sociale (“la popolazione faticava a tirare avanti... non comprendeva le tasse per sostenere le spese di guerra e la fastosità delle corti”), rigido nella cristallizzazione castale (“il governo spagnolo imponeva continuamente tributi... la gente affamata cadeva morta per strada... proibì l'emigrazione in altri stati...”, “C'era bisogno di manodopera, maschile e femminile, bambini compresi”, “I contadini si diedero da fare per introdurre nuove varietà di coltivazioni”): Marx è lontano e la religione è il collante che tiene insieme il microcosmo.
In appendice, alcune curiose ricette rinascimentali (“i cuochi si prodigavano unendo tradizione e innovazione”): come sarà il cavolo rosso con mele e cipolle di Philippine Welser?) utili anche al tempo di MasterChef che, è bene lo sappia, non ha inventato niente. Vico docet...
La scrittrice brianzola dagli occhi blu è a suo agio nel romanzo storico, ormai il suo dna e dopo aver frequentato la narrativa classica, evidentemente come scuola di formazione, ha trovato una personale password che consente di frequentarlo con assoluta padronanza di plot e di mood. Ci ha dato opere significative (“Teodolinda il senso della meraviglia”, 2009, “Adelaide imperatrice del lago”, 2011, “Il Principe dei cuochi”, 2011 e “Il cuoco del Papa”, 2013) e altre ce ne darà in futuro.
Possiede infatti velocità di scrittura, unita alla bizantina documentazione delle interfacce dei personaggi mutuata quasi dai monaci certosini. E conferma tali premesse anche in questo romanzo, che sta presentando in tutt'Italia ed extra moenia (è tornata da Lugano).
Narcisista come tutti gli artisti (anche nella cura del corpo), deciso, volitivo, in carriera, il pittore incarna un affollamento semantico del suo tempo, ne raggruma tutti i topoi, gli umori e le ansie, le passioni e le illusioni, le speranze e le sconfitte, etica ed estetica. La parabola esistenziale e artistica di Arcimboldo (così decise di farsi chiamare quando – e avvenne assai presto emancipandosi, figlio d'arte, dal padre Biagio (“la pittura è una poesia muta”, cita da Leonardo) e anche da una Milano troppo angusta - uscì a navigare il mare aperto che non ammette ripensamenti, balbettii, mollezze, si dispiega nel cuore vivo del Rinascimento, sullo sfondo di una guerra di religione, l'ennesima dall'anno Mille, di cui si lascia trasparire fugaci immagini, con i Turchi del Magnifico Solimano che rimestano alle frontiere, di terra e di mare (“agguerriti con le loro navi”, “pronti al combattimento”). E lo erano anche le forze cattoliche: Lepanto è alle porte.
Capitoli brevi e incalzanti, rapsodici, prosa balzacchiana, rapide e sapide pennellate con cui la Magni coglie l'anima barocca di un tempo alla fin fine non dissimile dal nostro (Milano era già “frettolosa”), cattura il pathos magmatico, maieutico che annunzia i Lumi che di lì a poco incendieranno l'umanità.
Come l'amor cortese del genio abile ufficio stampa di se stesso per la nobile Ludovica Crivelli “tormento amoroso senza tregua”, “delicato asfodelo”, “si sentiva mescolato a lei da un'affinità di idee” (ma anche per la trovatella Ortensia “regina di tutti gli orti”, sottratta a un destino di miseria) innerva gli archetipi del Romanticismo che verrà.
Il romanzo è un affresco sontuoso di un momento della storia europea dalla forte, dominante componente escatologica: le Americhe sono state appena trovate (dal “Nuovo Mondo” arrivano “scoperte botaniche” che suscitano entusiasmo), Lepanto (1571), madre di tutte le battaglie, incombe sull'Europa (da Carlo Magno a Carlo V il timone cattolico (“si raccomandò alla devozione dei santi”) è sempre ben governato, le smanie iconoclaste del “Puer Apuliae” formattate per la gioia di Roma).
Per cui la vita di un artista di dilatata sensibilità, “spirito eclettico”, vanitoso, alla ricerca “di sensazioni forti”, capace di esprimere una “passione d'animo”, ossessionato dalla bellezza e l'armonia (che chiama “bizzarrie” e “capricci”) e che – nello spirito del suo tempo si ispira al codice cavalleresco - si fa leggere come saggio storico pregno di un intenso plateau di forme e colori, nel contesto delle corti europee “crogiolo di culture”, “luogo di pace e di convivialità” (e oggi?).
Nella smania di spingersi oltre l'orizzonte, “nessun compito pareva precluso”, verso “una fama al di là di ogni tempo”, si declina la vivacità di un continente e dell'uomo post-medioevale, ansioso di sbarazzarsi di fardelli ingombranti, di misurarsi “a metà strada tra gioia e ironia” con sfide eccitanti in un mondo di forte competizione, per dominare il proprio destino: “percepì che avrebbe dovuto giocarsi l'avvenire con azzardo”, per lasciare una “traccia indelebile”. Nella Milano bigotta del Cardinale Borromeo (“si era anche prodigato per chiudere i postriboli”), calunniata dalla peste, infebbrata dalla mistica del lavoro, il romanzo muove col pittore sulla soglia della vecchiaia, nella casa-bottega dov'è tornato cosciente della fine “carico di onori e di gloria”, preda di un travaglio spirituale per un'improbabile rimodulazione, ancora “con l'ardore del sole sulla pelle” e avido di elogi, che traccia – in trance quasi come in un'autoanalisi - il bilancio di un'esistenza spesa fra Vienna, Praga e Milano (dove si allevano i bachi da seta), solcata dall'epos respirato alla corte asburgica, fra gli imperatori (il “folle” Rodolfo II si “circondava di personaggi che trattavano di magia, di alchimia...”) e gli artisti, le dame e i cavalieri, la mondanità, le feste, i tornei, il teatro, le mascherate, i matrimoni reali, il mecenatismo, il gusto ossessivo per il bello in cui si cerca l'immortalità. Nello sguardo di Arcimboldo, “divinità cosmopolita”, alla fine c'è il Rinascimento.
Ketty Magni ci conduce con mano ferma in questo mondo, ci fa respirare la sua essenza segreta che stordisce, che sa di tulipano e di lillà, contaminare dai suoi odori e sapori, piaceri e saperi. E' un universo elitario, esclusivo, dominato dal darwinismo sociale (“la popolazione faticava a tirare avanti... non comprendeva le tasse per sostenere le spese di guerra e la fastosità delle corti”), rigido nella cristallizzazione castale (“il governo spagnolo imponeva continuamente tributi... la gente affamata cadeva morta per strada... proibì l'emigrazione in altri stati...”, “C'era bisogno di manodopera, maschile e femminile, bambini compresi”, “I contadini si diedero da fare per introdurre nuove varietà di coltivazioni”): Marx è lontano e la religione è il collante che tiene insieme il microcosmo.
In appendice, alcune curiose ricette rinascimentali (“i cuochi si prodigavano unendo tradizione e innovazione”): come sarà il cavolo rosso con mele e cipolle di Philippine Welser?) utili anche al tempo di MasterChef che, è bene lo sappia, non ha inventato niente. Vico docet...