di Francesco Greco - “Stiamo quasi per toccare il fondo. L'universale rovina spirituale ci ha già raggiunto... Ci manca fermezza, orgoglio, entusiasmo...”. Il “profeta” parla anche dall'aldilà, perché i suoi ammonimenti, la lucidità analitica, la spietatezza delle sua visione del mondo e delle cose non sono soggette a relativismi temporali, né culturali: parlano all'uomo di ieri, oggi, domani.
E valgono non solo per la Grande Madre Russia, ma per tutto l'Occidente, per l'uomo in senso vasto e totale, per ogni conglomerato di individui inabissati nei sentieri dell'avventura umana, che sfidano i flutti limacciosi della Storia. Se solo volessero interrogarsi su se stessi e sulla realtà.
Perché il filosofo-scrittore-dissidente ha colto l'essenziale dell'animo umano, quel che si agita nel suo oscuro sottosuolo, spesso ignoto a se stesso, lo conosce in senso dostoevskiano.
E la sua parabola umana ha contribuito a supportarla, magari nelle notti insonni in fondo ai gulag della sua terra, già alla fine della seconda guerra.
“Il mio grido” (Il prezzo della vigliaccheria è sempre e solo il male), Piano B Edizioni (Collana Elementi, ottima traduzione di Daniela Campanini) Prato 2015, pp. 120, euro 12, raccoglie sette discorsi, saggi brevi, articoli, conferenze, aspri e possenti, in certi snodi apocalittici, di Aleksandr Solzenicyn (1918-2008), uno dei grandi del Novecento.
Una vita sotto il segno della coerenza quella del Premio Nobel 1970, ma ritirato solo nel 1974 (non andò a Stoccolma per paura di non poter più tornare a casa), anno in cui fu arrestato (12 febbraio) e di nuovo ed espulso dall'Urss in modo definitivo.
La grande anima russa ha pagato sulla propria pelle l'illusione che l'uomo possa liberarsi dall'orrore dentro di sé, che sparge intorno a sé, affrancarsi dal male, la sua banalità.
Non v'è dubbio che la biografia si riversa nelle idee: nel febbraio del 1945 fu arrestato dalla polizia politica e condotto nel gulag, ai lavori forzati. Più scende in quell'arcipelago, nel padiglione cancro e più lo scrittore continua a credere nell'uomo, nutre la speranza di una redenzione, del ritorno a un'etica condivisa e aggregante, a una spiritualità riscritta, ritrovata.
Questi scritti parlano proprio alla sua anima complessa: lo scrittore non si rassegna alla deriva spirituale e morale, non la crede irreversibile, alimenta un'esile speranza e suggerisce come reagire al nichilismo.
Un filo corre lungo tutti gli scritti allineati in questa pubblicazione che ha il merito sottinteso di interagire con la contemporaneità, col dibattito politico, cogliendo un momento di impasse di governi, ideologie, culture, continenti, ora che il mondo è preda di istinti bestiali, dettati anche dalla globalizzazione che denuda ogni anima, a ogni angolo del pianeta e che l'uomo rischia di stramazzare sotto il peso delle sue infinite contraddizioni.
“Ognuno di noi cerchi di fare la propria scelta – ammonisce in Vivere senza menzogna, del 1974 – o rimanere servo consapevole della menzogna, oppure scuotersi di dosso le menzogne”.
Aggiunge ne “Il mio grido”, del 1970 (discorso composto per essere pronunciato davanti agli accademici svedesi): “Il nostro Ventesimo secolo ha dimostrato di essere il più crudele di tutti i secoli precedenti. Il nostro mondo è dilaniato da quelle stesse passioni dell'età delle caverne: avidità, invidia, rabbia, odio...”. E lo è ancora, oggi più che mai, anzi, oggi più di mezzo secolo fa. Occorre quasi una mutazione antropologica, quella auspicata dallo scrittore e che suggerisce ai giovani.
“Non abbandonatevi alla spensieratezza, non aspirate a una vita facile... Voi vi affacciate alla vita in un'epoca fatale - dice agli studenti inglesi, a Windsor, il 17 maggio 1983 - difendete la libertà finché ce l'avete...”. Già, finché ce l'avete, oggi che questo termine è stato svuotato di etimo da aspiranti dittatori ben mimetizzati.
E potrebbe essere considerato, a ben guardare, il suo testamento spirituale, per l'uomo del Novecento, ma anche del III Millennio, ovunque si trovi a intrecciare la sua ragnatela, a vivere la sua fantastica, tremenda avventura.
E valgono non solo per la Grande Madre Russia, ma per tutto l'Occidente, per l'uomo in senso vasto e totale, per ogni conglomerato di individui inabissati nei sentieri dell'avventura umana, che sfidano i flutti limacciosi della Storia. Se solo volessero interrogarsi su se stessi e sulla realtà.
Perché il filosofo-scrittore-dissidente ha colto l'essenziale dell'animo umano, quel che si agita nel suo oscuro sottosuolo, spesso ignoto a se stesso, lo conosce in senso dostoevskiano.
E la sua parabola umana ha contribuito a supportarla, magari nelle notti insonni in fondo ai gulag della sua terra, già alla fine della seconda guerra.
“Il mio grido” (Il prezzo della vigliaccheria è sempre e solo il male), Piano B Edizioni (Collana Elementi, ottima traduzione di Daniela Campanini) Prato 2015, pp. 120, euro 12, raccoglie sette discorsi, saggi brevi, articoli, conferenze, aspri e possenti, in certi snodi apocalittici, di Aleksandr Solzenicyn (1918-2008), uno dei grandi del Novecento.
Una vita sotto il segno della coerenza quella del Premio Nobel 1970, ma ritirato solo nel 1974 (non andò a Stoccolma per paura di non poter più tornare a casa), anno in cui fu arrestato (12 febbraio) e di nuovo ed espulso dall'Urss in modo definitivo.
La grande anima russa ha pagato sulla propria pelle l'illusione che l'uomo possa liberarsi dall'orrore dentro di sé, che sparge intorno a sé, affrancarsi dal male, la sua banalità.
Non v'è dubbio che la biografia si riversa nelle idee: nel febbraio del 1945 fu arrestato dalla polizia politica e condotto nel gulag, ai lavori forzati. Più scende in quell'arcipelago, nel padiglione cancro e più lo scrittore continua a credere nell'uomo, nutre la speranza di una redenzione, del ritorno a un'etica condivisa e aggregante, a una spiritualità riscritta, ritrovata.
Questi scritti parlano proprio alla sua anima complessa: lo scrittore non si rassegna alla deriva spirituale e morale, non la crede irreversibile, alimenta un'esile speranza e suggerisce come reagire al nichilismo.
Un filo corre lungo tutti gli scritti allineati in questa pubblicazione che ha il merito sottinteso di interagire con la contemporaneità, col dibattito politico, cogliendo un momento di impasse di governi, ideologie, culture, continenti, ora che il mondo è preda di istinti bestiali, dettati anche dalla globalizzazione che denuda ogni anima, a ogni angolo del pianeta e che l'uomo rischia di stramazzare sotto il peso delle sue infinite contraddizioni.
“Ognuno di noi cerchi di fare la propria scelta – ammonisce in Vivere senza menzogna, del 1974 – o rimanere servo consapevole della menzogna, oppure scuotersi di dosso le menzogne”.
Aggiunge ne “Il mio grido”, del 1970 (discorso composto per essere pronunciato davanti agli accademici svedesi): “Il nostro Ventesimo secolo ha dimostrato di essere il più crudele di tutti i secoli precedenti. Il nostro mondo è dilaniato da quelle stesse passioni dell'età delle caverne: avidità, invidia, rabbia, odio...”. E lo è ancora, oggi più che mai, anzi, oggi più di mezzo secolo fa. Occorre quasi una mutazione antropologica, quella auspicata dallo scrittore e che suggerisce ai giovani.
“Non abbandonatevi alla spensieratezza, non aspirate a una vita facile... Voi vi affacciate alla vita in un'epoca fatale - dice agli studenti inglesi, a Windsor, il 17 maggio 1983 - difendete la libertà finché ce l'avete...”. Già, finché ce l'avete, oggi che questo termine è stato svuotato di etimo da aspiranti dittatori ben mimetizzati.
E potrebbe essere considerato, a ben guardare, il suo testamento spirituale, per l'uomo del Novecento, ma anche del III Millennio, ovunque si trovi a intrecciare la sua ragnatela, a vivere la sua fantastica, tremenda avventura.