di Tina Aventaggiato - Il romanzo di Ketty Magni (“Arcimboldo, gustose passioni”, Cairo Editore, Milano 2015, € 15,00) apre con una frase, “Le voci sono segni di quelle passioni che sono nell’anima” di Gregorio Comanini, che ci interroga sul valore dei segni e il cui significato si chiarisce nelle pagine successive. Ma è l’incipit del libro a essere strepitoso.
“ L’idea era scolpita nella mente”.
Il lettore si predispone alla ricerca dell’idea. Quasi un thriller in cui la domanda non è chi è l’assassino ma quale è l’idea. E per che cosa? In una struttura ormai consolidata in letteratura, Magni presenta Arcimboldo vecchio, per poi ricostruire, nei capitoli successivi, la sua vita.
Giuseppe Arcimboldo ha 65 anni e ha vissuto un successo senza confini. Ha ricevuto onori e gloria. Nella sua casa-bottega, vecchio, pallido e tremante, gli manca il fiato e deve affacciarsi fuori per respirare. Nel momento in cui il temporale si abbatte su Milano. Il mutare delle condizioni atmosferiche diventa uno stimolo per la sua arte. I suoi occhi guardano il mondo per usarlo ai suoi fini. Ha nuove energie e riprende il lavoro. Subito il suo stato d’animo e le sue condizioni fisiche migliorano.
E’ lo stato dell’uomo-artista che si nutre della sua arte.
Anche di prelibatezze culinarie. E’ un gran goloso. Il pane fresco che gli porge il dotto letterato Gherardini è fragranza e profumo che esplodono nella sua testa e si associano al ricordo della madre Chiara. Guarda la giovane pittrice Fede Galizia, ammirata dalla sua opera, e vede fiori dal profumo di miele, la pelle è crosta di pane e i seni pomi da cogliere. Tutto fa arte. Anche lo stipendio mensile e la liquidazione di 1.500 fiorini elargite dell’imperatore Rodolfo II sono stimoli grandi. La misura del suo valore.
E non è da poco che a stabilirlo sia l’imperatore. Il suo valore è alto e non c’è miglior nutrimento per il narcisismo di un artista. Arcimboldo lo è, molto. Lui gusta con voluttà un piatto prelibato di lumache e nella sua mente misura la scia che, come una lumaca, lascerà nella storia. Il petto si gonfia al pensiero: la sua “traccia indelebile ed eterna sulla terra”.
Giuseppe Arcimboldo è grande e sa di esserlo. Con la maturità ha imparato a gestire le emozioni e il fegato non lo rode, come una volta, di fronte alla malignità altrui. Gli piace sempre suscitare stupore e ammirazione. Fa chiamare il canonico di Mantova e amico Gregorio Comanini per mostrargli la sua opera: un canestro pieno di vegetali. “ Visione meravigliosa”, valuta l’amico.
L’opera, che è un semplice canestro, se capovolta raffigura un volto. L’importanza del punto di vista. “Bisogna saper distinguere e interpretare”, un dettato della sua vita di uomo e di artista. E Comanini dà il significato delle parole che aprono il libro: “Le voci sono segni di quelle passioni che sono nell’anima. Avete espresso la vostra passione d’animo con il pennello, così come il poeta con la penna”.
La perfezione sarebbe mettere insieme il poeta e il pittore. Nella sua molteplice versatilità lo farà. Arcimboldo è un figlio d’arte. Il padre Biagio è pittore nella Veneranda Fabbrica del Duomo, associa il figlio e vuole tramandargli la sua arte. Padre e figlio si rivelano diversi. Mentre il padre lavora preciso attenendosi alle regole, Giuseppe ha bisogno di suscitare stupore.
A 15 anni, davanti all’incedere maestoso dell’Imperatore Carlo V a cavallo, il padre lo invita a farsi “il segno della croce in segno di adorazione”. Ma già qualche anno dopo è proiettato verso il suo personale futuro di artista. Giuseppe incontra il figlio dell’Imperatore, Filippo II d’Asburgo, e la sua riflessione è: ecco, uno che ha il destino segnato. Ha avuto tutto e deve impegnarsi a meritarlo ed essere all’altezza di suo padre. E se non ci riesce? Filippo II avrà l’obbligo di osare tutto nella vita. Proprio come lui.
Il figlio dell’Imperatore è il suo alter ego e, come per lui, la necessità è raccogliere la sfida della vita: osare sempre, e tutto. “Procedi con prudenza”, lo consiglia il marchese amico Giovanni Alfonso Castaldo alla Corte Imperiale dove Arcimboldo è ritrattista. Lui non può. La smania di successo è grande e, nella corte asburgica, tutto e tutti ruotano intorno all’Imperatore nell’intento di compiacerlo. Lavora in segreto e termina quattro stravaganti ritratti. Si tratta di originali profili raffiguranti le stagioni dell’anno che stupiscono l’Imperatore Ferdinando II che lo onora della sua attenzione e delle sue riflessioni, anche politiche.
Gli parla della moglie Anna e dell’importanza dei figli ma Arcimboldo non ne coglie il valore; amore per Arcimboldo è ancora una persona sola: Ludovica. Vive nelle corti e ciò che coglie è, soprattutto, l’opportunità di nuovi ruoli artistici dati dal bisogno dei potenti di celebrare la propria gloria.
Per elogiare il casato asburgico Arcimboldo raffigurerà L’Europa e le sue quattro figlie, Spagna, Francia, Germania e Italia, unite nella lotta contro i barbari. Sarà sempre pronto a catturare l’interesse dei sovrani che costruiscono castelli, ville e giardini dove sono coltivati fiori preziosi; diventerà scenografo, costumista, illustratore scientifico di piante e animali. Si occuperà della coreografia e delle danze delle grandi feste. Ormai, il miglior ideatore di giochi di corte, verrà chiamato anche ad allietare le feste di nozze della figlia dell’Imperatore Massimiliano II, Anna, e di Carlo II Francesco d’Austria.
Per l’imperatore Rodolfo II, un eccentrico dagli atteggiamenti un po’ folli e sempre scontento, Arcimboldo si preoccupa di ritrarlo per farselo amico. Il Vertunno, dio delle mutazioni e delle stagioni, è Rodolfo II. “L’immagine, divertente e di apparente bruttezza, celava la bellezza interiore del sovrano. Fu graditissima”.
Ecco come Arcimboldo, devoto e servile alle necessità dei grandi e al suo bisogno di fare arte ai massimi livelli e coi massimi risultati, costruì la sua grandezza. Alla fine della sua vita il suo autoritratto lo soddisfa: “ha l’espressione giusta: un concentrato di sogni, di aspirazioni d’arte, di gusto di ricerca. Era proprio lui. Era il magico, irripetibile, goloso Arcimboldo”.
Arcimboldo visse al centro del mondo. Fu a contatto dei grandi che fanno la storia: Carlo V, Ferdinando I, Massimiliano II e Rodolfo II e le loro famiglie. Cosa vide della storia che gli scorreva intorno? Nel ritratto dell’artista di Ketty Magni la storia politica e sociale delle genti quasi non entra. Il mondo di Arcimboldo è quello delle classi privilegiate, fatte di feste, balli e sontuosi banchetti. La cultura culinaria è dominante. La carestia, la peste, la fame delle classi povere, la vita dei contadini tartassati dai tributi, la minaccia ottomana occupano poche righe. Forse come è giusto che sia: nel 1500 quello dei poveri era un mondo senza voce.
Infine, Ludovica. Cioè come Arcimboldo visse l’amore della sua vita. Si innamorò di lei negli incontri dell’Accademia della Val di Blenio e tentò un approccio che non riuscì. L’amore cominciò come tormento e decise che l’avrebbe conquistata. Lasciò Milano per andare a Corte e diventare famoso. Per Ludovica volle avere onori e gloria. Così l’amore fu strumento di conquista. Quando tornò a Milano allora sì che l’amore fu vero; lui era pazzo di lei e lei ricambiava.
Lasciò Federica per tornare nella corte asburgica convinto che “la lontananza intensifica l’amore”. L’amore ha cambiato prospettiva, è forte e lontano, struggente. A corte Arcimboldo può corteggiare tante donne ma gli manca Ludovica. Scrive all’amico Castaldo per avere sue notizie e, tragedia, Ludovica è morta.
Una nuova prospettiva per l’amore e l’ultimo punto di vista. L’amore è mancanza, ma tutto fa arte. Resta la domanda posta dall’incipit di questo bel libro: “L’idea era scolpita nella mente”; quale idea, per cosa? Se questa riflessione non l’ha resa chiara, l’invito è cercare la risposta nelle parole di Ketty Magni. (Il romanzo sarà presentato a Otranto, Castello Aragonese, il 3 luglio 2015).
“ L’idea era scolpita nella mente”.
Il lettore si predispone alla ricerca dell’idea. Quasi un thriller in cui la domanda non è chi è l’assassino ma quale è l’idea. E per che cosa? In una struttura ormai consolidata in letteratura, Magni presenta Arcimboldo vecchio, per poi ricostruire, nei capitoli successivi, la sua vita.
Giuseppe Arcimboldo ha 65 anni e ha vissuto un successo senza confini. Ha ricevuto onori e gloria. Nella sua casa-bottega, vecchio, pallido e tremante, gli manca il fiato e deve affacciarsi fuori per respirare. Nel momento in cui il temporale si abbatte su Milano. Il mutare delle condizioni atmosferiche diventa uno stimolo per la sua arte. I suoi occhi guardano il mondo per usarlo ai suoi fini. Ha nuove energie e riprende il lavoro. Subito il suo stato d’animo e le sue condizioni fisiche migliorano.
E’ lo stato dell’uomo-artista che si nutre della sua arte.
Anche di prelibatezze culinarie. E’ un gran goloso. Il pane fresco che gli porge il dotto letterato Gherardini è fragranza e profumo che esplodono nella sua testa e si associano al ricordo della madre Chiara. Guarda la giovane pittrice Fede Galizia, ammirata dalla sua opera, e vede fiori dal profumo di miele, la pelle è crosta di pane e i seni pomi da cogliere. Tutto fa arte. Anche lo stipendio mensile e la liquidazione di 1.500 fiorini elargite dell’imperatore Rodolfo II sono stimoli grandi. La misura del suo valore.
E non è da poco che a stabilirlo sia l’imperatore. Il suo valore è alto e non c’è miglior nutrimento per il narcisismo di un artista. Arcimboldo lo è, molto. Lui gusta con voluttà un piatto prelibato di lumache e nella sua mente misura la scia che, come una lumaca, lascerà nella storia. Il petto si gonfia al pensiero: la sua “traccia indelebile ed eterna sulla terra”.
Giuseppe Arcimboldo è grande e sa di esserlo. Con la maturità ha imparato a gestire le emozioni e il fegato non lo rode, come una volta, di fronte alla malignità altrui. Gli piace sempre suscitare stupore e ammirazione. Fa chiamare il canonico di Mantova e amico Gregorio Comanini per mostrargli la sua opera: un canestro pieno di vegetali. “ Visione meravigliosa”, valuta l’amico.
L’opera, che è un semplice canestro, se capovolta raffigura un volto. L’importanza del punto di vista. “Bisogna saper distinguere e interpretare”, un dettato della sua vita di uomo e di artista. E Comanini dà il significato delle parole che aprono il libro: “Le voci sono segni di quelle passioni che sono nell’anima. Avete espresso la vostra passione d’animo con il pennello, così come il poeta con la penna”.
La perfezione sarebbe mettere insieme il poeta e il pittore. Nella sua molteplice versatilità lo farà. Arcimboldo è un figlio d’arte. Il padre Biagio è pittore nella Veneranda Fabbrica del Duomo, associa il figlio e vuole tramandargli la sua arte. Padre e figlio si rivelano diversi. Mentre il padre lavora preciso attenendosi alle regole, Giuseppe ha bisogno di suscitare stupore.
A 15 anni, davanti all’incedere maestoso dell’Imperatore Carlo V a cavallo, il padre lo invita a farsi “il segno della croce in segno di adorazione”. Ma già qualche anno dopo è proiettato verso il suo personale futuro di artista. Giuseppe incontra il figlio dell’Imperatore, Filippo II d’Asburgo, e la sua riflessione è: ecco, uno che ha il destino segnato. Ha avuto tutto e deve impegnarsi a meritarlo ed essere all’altezza di suo padre. E se non ci riesce? Filippo II avrà l’obbligo di osare tutto nella vita. Proprio come lui.
Il figlio dell’Imperatore è il suo alter ego e, come per lui, la necessità è raccogliere la sfida della vita: osare sempre, e tutto. “Procedi con prudenza”, lo consiglia il marchese amico Giovanni Alfonso Castaldo alla Corte Imperiale dove Arcimboldo è ritrattista. Lui non può. La smania di successo è grande e, nella corte asburgica, tutto e tutti ruotano intorno all’Imperatore nell’intento di compiacerlo. Lavora in segreto e termina quattro stravaganti ritratti. Si tratta di originali profili raffiguranti le stagioni dell’anno che stupiscono l’Imperatore Ferdinando II che lo onora della sua attenzione e delle sue riflessioni, anche politiche.
Gli parla della moglie Anna e dell’importanza dei figli ma Arcimboldo non ne coglie il valore; amore per Arcimboldo è ancora una persona sola: Ludovica. Vive nelle corti e ciò che coglie è, soprattutto, l’opportunità di nuovi ruoli artistici dati dal bisogno dei potenti di celebrare la propria gloria.
Per elogiare il casato asburgico Arcimboldo raffigurerà L’Europa e le sue quattro figlie, Spagna, Francia, Germania e Italia, unite nella lotta contro i barbari. Sarà sempre pronto a catturare l’interesse dei sovrani che costruiscono castelli, ville e giardini dove sono coltivati fiori preziosi; diventerà scenografo, costumista, illustratore scientifico di piante e animali. Si occuperà della coreografia e delle danze delle grandi feste. Ormai, il miglior ideatore di giochi di corte, verrà chiamato anche ad allietare le feste di nozze della figlia dell’Imperatore Massimiliano II, Anna, e di Carlo II Francesco d’Austria.
Per l’imperatore Rodolfo II, un eccentrico dagli atteggiamenti un po’ folli e sempre scontento, Arcimboldo si preoccupa di ritrarlo per farselo amico. Il Vertunno, dio delle mutazioni e delle stagioni, è Rodolfo II. “L’immagine, divertente e di apparente bruttezza, celava la bellezza interiore del sovrano. Fu graditissima”.
Ecco come Arcimboldo, devoto e servile alle necessità dei grandi e al suo bisogno di fare arte ai massimi livelli e coi massimi risultati, costruì la sua grandezza. Alla fine della sua vita il suo autoritratto lo soddisfa: “ha l’espressione giusta: un concentrato di sogni, di aspirazioni d’arte, di gusto di ricerca. Era proprio lui. Era il magico, irripetibile, goloso Arcimboldo”.
Arcimboldo visse al centro del mondo. Fu a contatto dei grandi che fanno la storia: Carlo V, Ferdinando I, Massimiliano II e Rodolfo II e le loro famiglie. Cosa vide della storia che gli scorreva intorno? Nel ritratto dell’artista di Ketty Magni la storia politica e sociale delle genti quasi non entra. Il mondo di Arcimboldo è quello delle classi privilegiate, fatte di feste, balli e sontuosi banchetti. La cultura culinaria è dominante. La carestia, la peste, la fame delle classi povere, la vita dei contadini tartassati dai tributi, la minaccia ottomana occupano poche righe. Forse come è giusto che sia: nel 1500 quello dei poveri era un mondo senza voce.
Infine, Ludovica. Cioè come Arcimboldo visse l’amore della sua vita. Si innamorò di lei negli incontri dell’Accademia della Val di Blenio e tentò un approccio che non riuscì. L’amore cominciò come tormento e decise che l’avrebbe conquistata. Lasciò Milano per andare a Corte e diventare famoso. Per Ludovica volle avere onori e gloria. Così l’amore fu strumento di conquista. Quando tornò a Milano allora sì che l’amore fu vero; lui era pazzo di lei e lei ricambiava.
Lasciò Federica per tornare nella corte asburgica convinto che “la lontananza intensifica l’amore”. L’amore ha cambiato prospettiva, è forte e lontano, struggente. A corte Arcimboldo può corteggiare tante donne ma gli manca Ludovica. Scrive all’amico Castaldo per avere sue notizie e, tragedia, Ludovica è morta.
Una nuova prospettiva per l’amore e l’ultimo punto di vista. L’amore è mancanza, ma tutto fa arte. Resta la domanda posta dall’incipit di questo bel libro: “L’idea era scolpita nella mente”; quale idea, per cosa? Se questa riflessione non l’ha resa chiara, l’invito è cercare la risposta nelle parole di Ketty Magni. (Il romanzo sarà presentato a Otranto, Castello Aragonese, il 3 luglio 2015).