di Francesco Greco - E' la stampa, bellezza! Non più “preghiera laica del mattino” (Hegel). Ma se questa è quella italiana viene voglia di chiedere in edicola il “Notiziario del Sud”, piccola testata (“l'unica voce libera rimasta”) che vivacchia senza soldi pubblici. Solo che ha sospeso le pubblicazioni: il suo direttore-editore, Biagio Pellizzo, self-made-man tarantino che iniziò con una rotativa a rate, è sotto inchiesta e deve affrontare tragedie famigliari, la redazione manifesta davanti al tribunale, la banca chiede il “rientro”. Non hanno dietro la Bds di Lodovico Bogani (“la più forte del paese”), prelati, finanzieri, l'azionismo parcellizzato di quasi tutte le testate di un'Italia dove l'editore puro è sempre di là da venire, se mai verrà nel capitalismo maturo delle famiglie.
Con “Il direttore”, Chiarelettere, Milano 2014, pp. 256, euro 16,00 (proscenio di Sergio Ponchione), Luigi Bisignani consegna un affresco vivido nei suoi colori forti, neorealistici, dell'Italia semanticamente affollata, colta in uno snodo storico, epocale: lo status quo, il vecchio sistema dei partiti, alleanze, complicità, consociativismi, “gli antichi equilibri” della prima repubblica, tutto s'è dissolto sotto il maglio brutale di Tangentopoli, e deve inventarsi un nuovo modus vivendi, un'etica compatibile con una crisi economica planetaria che ha impoverito tutti, materialmente e spiritualmente e che chissà per quanto tempo ancora farà sentire i suoi effetti globali.
Protagonista è Fosco Marani, giornalista né giovane né vecchio, al confine con Area 71, che non si adatta al tempo del pixel e il whatsapp, dove “il potere, più che il denaro, non dorme mai” e ancora scrive con la vecchia Olivetti: infatti il sogno della sua vita è di aprire a Roma (a Milano uno è rimasto) un negozio dove i tanti disadattati come lui, alla deriva nella modernità, potranno trovare macchine per scrivere e nastri: archeologia tecnologica.
Già questo dato svela la sua psicologia umana, contaminata a quella professionale, un mix di idealismo tra Papa Francesco e l'etica luterana e illuminista se si vuole che il reale non sia avvinghiato dalla gramigna dell'anarchia e del dolore e costruire un mondo meno alienato, lacerante e disperato, appena appena vivibile, con un minimo di “intelligenza a onestà intellettuale”.
Coprotagonista Mauro De Blasio, direttore di una testata del Nord nel pantano di un vecchio che non muore e un nuovo che non avanza in modo chiaro. Un limbo sconvolto in cui tutto è possibile, anche che un prelato area Ior, Goran Raven, sia trovato ucciso sotto un ponte del Tevere e un big della finanza, Luca Alessandri (uno degli azionisti del giornale), arrestato con gran clamore mediatico per “associazione a delinquere, riciclaggio, esportazione di capitali”.
In questo sottosuolo dostoevskjano, fra l'Acad, il “cartello di Leopoli” e il “Codice di Vigenère” e dove “la superbia e l'orgoglio” sono i “peccati dei potenti”, Bisignani (“il Ken Follet italiano”, “Corriere della Sera”, per Rusconi ha pubblicato le spy story “Il sigillo della porpora” e “Nostra signora del Kgb”) colloca le tessere di un “romanzo sul potere” (che forse diventerà un film) e le sue dinamiche conosciute e soprattutto carsiche, sottintese. In cui nulla è come appare e nessuno può dirsi assolto. Lo scrittore lo colloca storicamente al crepuscolo del pontificato di Wojtyla (Raven è polacco, come l'altro morto eccellente, Jan Sòbiesky, “modello vincente della finanza internazionale”), e infatti si respira l'aria della dissoluzione di un mondo, del relativismo del suo patrimonio di valori.
L'ostinato Marani dalle notti colme di “sogni, incubi e rimpianti” e Rachele (dei servizi una volta tanto non deviati), il commissario Sorino e Treves sono impegnati affinché quello che verrà sia meno brutale e disumano, ma è solo una speranza coltivata con innocenza in un universo plasmato dalla morale cattolica. Perché le figure scolpite da Bisignani hanno la forza dell'archetipo, il dato antropologico prevale su ogni altra dimensione. E comunque ognuno si assolve per le sue debolezze e cedimenti (il cardinale Filippo Aimone per primo) in nome di una virtù superiore che regola l'universo e che conduce dritti nell'iperurano. Ma forse è solo un'illusione, una suggestione: quando i polveroni si diradano, il male riemerge e il piccolo editore, che finalmente è stato assolto, è ucciso davanti al magistrato che fa jogging.
Il dato psicologico (ma c'è anche una scansione psicanalitica) dei personaggi è comunque un intrigante atout della storia, ha una componente evocativa cool. Chiesa, alta finanza, editoria, servizi segreti, tribunali (“la giustizia diventa la politica con altri mezzi”), galere (“in quella cella c'era molta più umanità”), redazioni (“la parola di un giornalista è buona per il cesso”, le talpe spifferano il menabò alla concorrenza, i ribelli pubblicano su siti di controinformazione): Bisignani fa leggere in controluce uomini, donne (virago sospese fra procure e kamasutra, disposte a tutto come Sansovino: sono prevalenti nelle redazioni, purtroppo non sono brave come l'Oriana), situazioni barocche, intrighi, misteri (dov'è la borsa di Raven?, citazione di quella di Moro, Calvi, ecc.), ossessioni (sesso su tutte). Una variopinta fauna antropologica che ha in mano i nostri destini, destinata tuttavia a sopravvivere a ogni tempo e latitudine, almeno finché l'uomo non parlerà chiaro al suo io più profondo, rigenerando il suo dna.
Con “Il direttore”, Chiarelettere, Milano 2014, pp. 256, euro 16,00 (proscenio di Sergio Ponchione), Luigi Bisignani consegna un affresco vivido nei suoi colori forti, neorealistici, dell'Italia semanticamente affollata, colta in uno snodo storico, epocale: lo status quo, il vecchio sistema dei partiti, alleanze, complicità, consociativismi, “gli antichi equilibri” della prima repubblica, tutto s'è dissolto sotto il maglio brutale di Tangentopoli, e deve inventarsi un nuovo modus vivendi, un'etica compatibile con una crisi economica planetaria che ha impoverito tutti, materialmente e spiritualmente e che chissà per quanto tempo ancora farà sentire i suoi effetti globali.
Protagonista è Fosco Marani, giornalista né giovane né vecchio, al confine con Area 71, che non si adatta al tempo del pixel e il whatsapp, dove “il potere, più che il denaro, non dorme mai” e ancora scrive con la vecchia Olivetti: infatti il sogno della sua vita è di aprire a Roma (a Milano uno è rimasto) un negozio dove i tanti disadattati come lui, alla deriva nella modernità, potranno trovare macchine per scrivere e nastri: archeologia tecnologica.
Già questo dato svela la sua psicologia umana, contaminata a quella professionale, un mix di idealismo tra Papa Francesco e l'etica luterana e illuminista se si vuole che il reale non sia avvinghiato dalla gramigna dell'anarchia e del dolore e costruire un mondo meno alienato, lacerante e disperato, appena appena vivibile, con un minimo di “intelligenza a onestà intellettuale”.
Coprotagonista Mauro De Blasio, direttore di una testata del Nord nel pantano di un vecchio che non muore e un nuovo che non avanza in modo chiaro. Un limbo sconvolto in cui tutto è possibile, anche che un prelato area Ior, Goran Raven, sia trovato ucciso sotto un ponte del Tevere e un big della finanza, Luca Alessandri (uno degli azionisti del giornale), arrestato con gran clamore mediatico per “associazione a delinquere, riciclaggio, esportazione di capitali”.
In questo sottosuolo dostoevskjano, fra l'Acad, il “cartello di Leopoli” e il “Codice di Vigenère” e dove “la superbia e l'orgoglio” sono i “peccati dei potenti”, Bisignani (“il Ken Follet italiano”, “Corriere della Sera”, per Rusconi ha pubblicato le spy story “Il sigillo della porpora” e “Nostra signora del Kgb”) colloca le tessere di un “romanzo sul potere” (che forse diventerà un film) e le sue dinamiche conosciute e soprattutto carsiche, sottintese. In cui nulla è come appare e nessuno può dirsi assolto. Lo scrittore lo colloca storicamente al crepuscolo del pontificato di Wojtyla (Raven è polacco, come l'altro morto eccellente, Jan Sòbiesky, “modello vincente della finanza internazionale”), e infatti si respira l'aria della dissoluzione di un mondo, del relativismo del suo patrimonio di valori.
L'ostinato Marani dalle notti colme di “sogni, incubi e rimpianti” e Rachele (dei servizi una volta tanto non deviati), il commissario Sorino e Treves sono impegnati affinché quello che verrà sia meno brutale e disumano, ma è solo una speranza coltivata con innocenza in un universo plasmato dalla morale cattolica. Perché le figure scolpite da Bisignani hanno la forza dell'archetipo, il dato antropologico prevale su ogni altra dimensione. E comunque ognuno si assolve per le sue debolezze e cedimenti (il cardinale Filippo Aimone per primo) in nome di una virtù superiore che regola l'universo e che conduce dritti nell'iperurano. Ma forse è solo un'illusione, una suggestione: quando i polveroni si diradano, il male riemerge e il piccolo editore, che finalmente è stato assolto, è ucciso davanti al magistrato che fa jogging.
Il dato psicologico (ma c'è anche una scansione psicanalitica) dei personaggi è comunque un intrigante atout della storia, ha una componente evocativa cool. Chiesa, alta finanza, editoria, servizi segreti, tribunali (“la giustizia diventa la politica con altri mezzi”), galere (“in quella cella c'era molta più umanità”), redazioni (“la parola di un giornalista è buona per il cesso”, le talpe spifferano il menabò alla concorrenza, i ribelli pubblicano su siti di controinformazione): Bisignani fa leggere in controluce uomini, donne (virago sospese fra procure e kamasutra, disposte a tutto come Sansovino: sono prevalenti nelle redazioni, purtroppo non sono brave come l'Oriana), situazioni barocche, intrighi, misteri (dov'è la borsa di Raven?, citazione di quella di Moro, Calvi, ecc.), ossessioni (sesso su tutte). Una variopinta fauna antropologica che ha in mano i nostri destini, destinata tuttavia a sopravvivere a ogni tempo e latitudine, almeno finché l'uomo non parlerà chiaro al suo io più profondo, rigenerando il suo dna.