Quel fiume dove scorre la nostra dolce follia

di Francesco Greco - Riflessi pavloviani. Il pensiero corre al matto di “Amarcord”, che sale sull'albero urlando: “Voglio una donnaaaaaa!”. Era la Romagna spensierata, qui siamo invece nell'Emilia oscura, quasi tenebrosa, quella degli Appennini, ma fiumi e fiumiciattoli sono gli stessi, specie quando danzano. Come la follia. Forse la porta l'acqua, il mantra che recita quando piove tanto.

L'acqua divinità con cui la gente della Bassa parla, bestemmia, ma così, senza cattiveria, né offesa per nessuno. Neanche per il Cristo che dovrebbe domare la sua ferocia iconoclasta, né il prete gigantesco che lo conficca nella terra per soggiogarla.

Password gialla ne “Il fiume ti porta via”, di Giuliano Pasini, Mondadori, Milano 2015, pp. 276, euro 19,00 (collana “Strade blu”), dove un vecchio psichiatra è stato assassinato, a Pontaccio, il paesello dove il luminare era tornato a morire e che nel novembre 1951 fu spazzato via da un'inondazione. Le case furono rimesse su e Gardini (“re dei matti”, autodefinizione) le fece dipingere con colori vivaci dagli ospiti del suo manicomio che portava a vedere i treni passare.

E' stato direttore della Ca' di màt di Colorno dal '58 al '78 (ma passò un anno finchè le strutture non furono svuotate), quando un'idea stravagante, molto italiana, di quelle che sulla carta funzionano, di Franco Basaglia – che avrebbe dovuto dirigere il manicomio - restituì i malati di mente a famiglie che non li volevano e non sapevano come accudirli, dichiarando la follia estinta, e se proprio doveva sopravvivere, colpa della società più folle dei matti, agganciandoci un atout di classe (“Solo i poveri sono matti”).

E si può anche essere d'accordo (“I matti sono quelli che non ascoltano il bosco”) se solo ci fosse una terra di mezzo, un limbo dove ospitarli. A ognuno di loro fu dato un mattone e mandato a casa. “La Fiat” (così la gente chiamava quella che era stata una reggia e che diede da vivere a tanta gente) divenne un museo con un cicerone sempre pronto, Lindo Lorenzi, ma con pochi visitatori. Chi non l'aveva si arrangiò, qualcuno si diede alla macchia e rispuntò qua e là a vivere di niente, di funghi per dire come il Cinòn.

Indaga il commissario Roberto Serra, scacciato dalla Polizia per aver alzato le mani sul capo. E' un uomo confuso, lesionato, misogino. Più smarrita la moglie Alice – fu allieva di Mario Gardini – che lo ha lasciato portandosi via la figlioletta e si fa consolare da un riccone che vive nello stesso palazzo di famiglia a Bologna. Lo ha lasciato, o forse no: è la dimensione ambigua dei sentimenti d'oggi: un must.
Serra vuole riprendere a navigare nel mare infido della vita, riscattarsi sul fronte della carriera a dei sentimenti, tornando in polizia e con la famiglia, anche perché la sua bimba Silvia ha una strana malattia, che lo scrittore chiama “assenza” (un'altra forma di follia). Ecco allora a Pontaccio, con l'ara del turista, tanto per giustificare a se stesso il tentativo, con quell'indolenza vigile del tenente Colombo (dopo un po' arriva il collega Maxielutzi, un sardo).

Ovviamente non diciamo al lettore come procede la storia, però lo avvisiamo: niente e nessuno è come appare, o meglio com'è rappresentato: ognuno ha un altro livello: un gioco tipo matrioska. I buoni non sono buoni, e neanche i cattivi, l'assassino non è l'assassino: un equilibrio sottile che Pasini crea con estrema abilità.

Disincantato quanto basta al dna italico, Serra (“cicatrici sul viso”, ma soprattutto dentro) è tollerato dal maresciallo Pepito Sbezzeguti (“repetita iuve”, “c'è stato un qui quo qua”, “o temporali, o more”, “Noli mi tingere”) che cerca di far luce con l'aiuto del veterocomunista Donizetti. I loro padri ebbero a che fare con la Fiat, ma loro lo nascondono con fastidio.

Il commissario è accolto con trasporto da una quarantenne sola (Serenella) e la figlia (Lucilla) che mandano avanti il Bartrattoria. L'Emilia del sottosuolo, quella di Guareschi (“là hanno un'anima anche i cani”) c'è tutta: odori, profumi, colori, paesaggi di vigne e mais, nebbie e vini, e vite sanguigne, dirette, senza barocchismi, filosofie posticce.

Storia di ordinaria follia, lieve, poetica, felliniana, modulata in un universo minimal, solare, così ben scavato da Salvalaggio e Piero Chiara, da Celati e Bianciardi, per citarne solo alcuni. Ombre nel bosco, mattoni antichi, la cava di un riccone che che ha scacciato la moglie per mettersi con una ragazza russa che ha l'età del figlio Manuel, così drogato da divertirsi a sparare nella notte.
Il “particulare” contamina, surroga l'universale, in stretta osmosi. Un microcosmo dove la vita scorre più lenta ma non per questo meno segnata dal furore delle passioni, che quando esondano lasciano tracce profonde nell'anima.

Il più sconvolto è il più razionale: il direttore Gardini. Ha una figlia, Ottavia (“la testa di una bimba di 5 anni”), che vive attaccata a un orsacchiotto senza occhi ed è stata svezzata dalla sorella Sarmede: personaggi teneri e struggenti.

Pasini coglie l'anima antica e un po' folle sopravvissuta, intatta del mondo contadino: i tre anziani, Brusco, Smilzo e Stràziami che cantano celebri arie sono la memoria della Bassa, le radici di una terra che non si piega allo smarrimento cosmico, polisemica e filologicamente innervata da mille archetipi.

Il “giallo” a ben vedere è solo un format per raccontare quel mondo, per opporre i guasti e lacerazioni della modernità a un mondo passato che pure sopravvive nella sua vitalità ingenua e sfrenata e nella socialità gratificante: un dolce fluire dell'esistenza su cui incombe la “danza” e a cui ci si potrebbe affidare, se solo fossimo meno folli invece di muoverci come marionette dai gesti schizofrenici. Cos'è in fondo la pazzia se non un'opzione cui siamo costretti per avvicinarci a sfiorare il mistero della vita?

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