di Francesco Greco. APRICENA (Fg) – Dieci anni fa, il 29 agosto 2005, a 80 anni, a Foggia, perdevamo il grande Matteo Salvatore. Il nome non dice niente alle folle lobotomizzate dalla tv-spazzatura e dai gorgheggi in playback di “chitarrosi” che cantano sempre la stessa canzone, testi da diarrea, cuori infranti, accordi da analfabeti: rubbish. Se la musica non esprime un territorio, un popolo, la sua storia e cultura, cos'è se non onanismo?
Senza un buon ufficio stampa, anche postumo, oggi non vai da nessuna parte. Ma forse è stato sempre così: Monica non fu forse la press-agent di Agostino d'Ippona? E vale anche per il cantautore, anima e voce del popolo mediterraneo. Che resta però confinato in una nicchia, perché i media occupano tutti gli spazi possibili e impossibili con feticismo di presunti artisti: è il business, bellezza!
Così su Matteo (Apricena, 16 giugno 1925) ma anche su altri grandi interpreti della musica tradizionale, popolare (Otello Profazio, Dodi Moscati, Giovanna Marini, Caterina Bueno, Maria Carta, Rosa Balistreri, Gipo Farassino, Enzo Del Re, lo stesso Toni Santagata, ecc.) è calato l'oblio. Ma potremmo citare anche gli stranieri: Mercedes Sosa, Victor Jara, Amalia Rodriguez, i Quilapayùn, per i media non esistono, non fanno notizia. Così va il mondo marcio. Emigreremo su Keplero 452B.
Salvatore fu un vero poeta e mise nelle canzoni la sua vita, dalla nascita in una Capitanata poverissima, nel primo dopoguerra, sino alla fine, quando cantava alle feste popolari, esibito come un trofeo emerso da un passato che si credeva sepolto ma che invece era vivo. Meglio di niente, anche perché ormai la musica popolare aveva i suoi circuiti, sebbene marginali, e i suoi seguaci appassionati. La dignità l'ha sempre avuta.
Pur in un'Italia straniata, smarrita, spogliata della sua anima arcaica, contadina, del passato splendore delle sue corti, delle sue intelligenze, omologata dalla globalizzazione, un esproprio culturale violento, iniziato già negli anni Sessanta e Settanta e contro cui Pier Paolo Pasolini lanciò i suoi anatemi. Un suicidio, un modo di soffocare la propria coscienza che scontiamo ancora oggi, preda di volgari imbonitori, incantatori di serpenti: siamo carne da macello elettorale.
Matteo nasce in una famiglia povera e numerosa. I Salvatore sono denominati “Zicozico”. C'è un nesso semantico fra povertà, virilità, fertilità. Più figli hai e più sei uomo: per noi e la nostra cultura disidratata non è più così (lo era e lo è invece per gli Arabi). Infanzia di stenti: padre disoccupato e testa calda: finisce in carcere, a Lucera, cella divisa con Giuseppe Di Vittorio, altro uomo di cui noi Apuli andiamo fieri. Quasi rimosso anche lui.
La madre chiede la carità nei paesi vicini. Matteo prende lezioni da un violinista cieco, Vincenzo Pizzicoli, qualche accordo rudimentale per fare le serenate alle finestre, su commissione, e mettersi in tasca qualche soldino. Fa anche il banditore per una macelleria paesana: a casa sua la carne è sconosciuta.
Dopo la guerra emigra a Roma, destino di ogni meridionale che vuol cambiarsi il destino: gli orizzonti del Sud gli vanno stretti (“Gente de lu vicinate / feciteve li cazza vostra”). Nell'Italia che ricostruisce macerie materiali e morali, una sera, in un'hostaria incontra Claudio Villa, sanguigno come lui, che lo incoraggia a cantare nella sua lingua. E Matteo canta il dolore e la fatica, l'amore e il lavoro, le illusioni, i passioni e i sogni: sentimenti che ben conosce perché se li ritrova nella pelle, nel sangue, nel dna, suo e della sua gente, dei sud infiniti di un mondo duro, cattivo, che esclude i più.
Villa gli produce i primi dischi, Matteo canta nei concerti, va a esibirsi all'estero: tre volte negli Usa. E' il successo, la fama, la ricchezza, l'amore: sposa Ida, nascono Franco e Margherita. La famiglia sta a Milano, lui a Roma. Così si innamora di Adriana Doriani, una sua corista. Nel 1973 finirà in carcere accusato del suo omicidio.
Cover immortali: “Il lamento dei mendicanti” e una canzone scritta dal padre e da Di Vittorio in carcere, “Evviva la Repubblica”. Per la critica “ha anticipato i grandi cantautori”: De Andrè, Guccini, Lauzi, Gaetano, Gaber, Tenco, Paoli, Bindi, Endrigo, senza scordare il livornese Piero Ciampi. Motivo in più per ribellarsi alla damnatio memoriae di un grande poeta, onore e vanto della Puglia più bella e più vera.
Senza un buon ufficio stampa, anche postumo, oggi non vai da nessuna parte. Ma forse è stato sempre così: Monica non fu forse la press-agent di Agostino d'Ippona? E vale anche per il cantautore, anima e voce del popolo mediterraneo. Che resta però confinato in una nicchia, perché i media occupano tutti gli spazi possibili e impossibili con feticismo di presunti artisti: è il business, bellezza!
Così su Matteo (Apricena, 16 giugno 1925) ma anche su altri grandi interpreti della musica tradizionale, popolare (Otello Profazio, Dodi Moscati, Giovanna Marini, Caterina Bueno, Maria Carta, Rosa Balistreri, Gipo Farassino, Enzo Del Re, lo stesso Toni Santagata, ecc.) è calato l'oblio. Ma potremmo citare anche gli stranieri: Mercedes Sosa, Victor Jara, Amalia Rodriguez, i Quilapayùn, per i media non esistono, non fanno notizia. Così va il mondo marcio. Emigreremo su Keplero 452B.
Salvatore fu un vero poeta e mise nelle canzoni la sua vita, dalla nascita in una Capitanata poverissima, nel primo dopoguerra, sino alla fine, quando cantava alle feste popolari, esibito come un trofeo emerso da un passato che si credeva sepolto ma che invece era vivo. Meglio di niente, anche perché ormai la musica popolare aveva i suoi circuiti, sebbene marginali, e i suoi seguaci appassionati. La dignità l'ha sempre avuta.
Pur in un'Italia straniata, smarrita, spogliata della sua anima arcaica, contadina, del passato splendore delle sue corti, delle sue intelligenze, omologata dalla globalizzazione, un esproprio culturale violento, iniziato già negli anni Sessanta e Settanta e contro cui Pier Paolo Pasolini lanciò i suoi anatemi. Un suicidio, un modo di soffocare la propria coscienza che scontiamo ancora oggi, preda di volgari imbonitori, incantatori di serpenti: siamo carne da macello elettorale.
Matteo nasce in una famiglia povera e numerosa. I Salvatore sono denominati “Zicozico”. C'è un nesso semantico fra povertà, virilità, fertilità. Più figli hai e più sei uomo: per noi e la nostra cultura disidratata non è più così (lo era e lo è invece per gli Arabi). Infanzia di stenti: padre disoccupato e testa calda: finisce in carcere, a Lucera, cella divisa con Giuseppe Di Vittorio, altro uomo di cui noi Apuli andiamo fieri. Quasi rimosso anche lui.
La madre chiede la carità nei paesi vicini. Matteo prende lezioni da un violinista cieco, Vincenzo Pizzicoli, qualche accordo rudimentale per fare le serenate alle finestre, su commissione, e mettersi in tasca qualche soldino. Fa anche il banditore per una macelleria paesana: a casa sua la carne è sconosciuta.
Dopo la guerra emigra a Roma, destino di ogni meridionale che vuol cambiarsi il destino: gli orizzonti del Sud gli vanno stretti (“Gente de lu vicinate / feciteve li cazza vostra”). Nell'Italia che ricostruisce macerie materiali e morali, una sera, in un'hostaria incontra Claudio Villa, sanguigno come lui, che lo incoraggia a cantare nella sua lingua. E Matteo canta il dolore e la fatica, l'amore e il lavoro, le illusioni, i passioni e i sogni: sentimenti che ben conosce perché se li ritrova nella pelle, nel sangue, nel dna, suo e della sua gente, dei sud infiniti di un mondo duro, cattivo, che esclude i più.
Villa gli produce i primi dischi, Matteo canta nei concerti, va a esibirsi all'estero: tre volte negli Usa. E' il successo, la fama, la ricchezza, l'amore: sposa Ida, nascono Franco e Margherita. La famiglia sta a Milano, lui a Roma. Così si innamora di Adriana Doriani, una sua corista. Nel 1973 finirà in carcere accusato del suo omicidio.
Cover immortali: “Il lamento dei mendicanti” e una canzone scritta dal padre e da Di Vittorio in carcere, “Evviva la Repubblica”. Per la critica “ha anticipato i grandi cantautori”: De Andrè, Guccini, Lauzi, Gaetano, Gaber, Tenco, Paoli, Bindi, Endrigo, senza scordare il livornese Piero Ciampi. Motivo in più per ribellarsi alla damnatio memoriae di un grande poeta, onore e vanto della Puglia più bella e più vera.