Il Novecento nascosto nelle “Stanze del tempo”

di Francesco Greco - Il Novecento, il “secolo breve” cosparso di ispidi, tragici “ismi”, che ci hanno fatto teorizzare la fine della Storia (Francis Fukuyama). Il trascolorare dal mondo contadino nella civiltà industriale, pur senza una rivoluzione culturale al pari delle altre potenze europee, e quindi senza una metabolizzazione lenta, una trasmutazione dolce degli archetipi che reggono una community barocca, quale siamo, con una storia comunque diversa dagli altri Paesi d'Europa, un dna assemblato da invasioni, colonizzazioni, popoli e culture succedutesi, da Nord a Sud, nei secoli e i millenni, fino a un'unità più surreale e metafisica che sentimento condiviso.

Questo mondo (le Marche, ma possono essere lette come la metafora del Sud-nazione) colmo di energia e passione, con in suoi equilibri e stratificazioni sociali, infebbrato da un'incontenibile voglia di protagonismo sulla scena della Storia, voglia di andare oltre gli orizzonti, a modo dei cavalieri medievali che lanciavano il cuore oltre l'ostacolo, è racchiuso ne “Le stanze del tempo”, di Federica Bernardini, scriverepervolare editore, Jesi (Ancona), pp. 426, euro 19.00 (bella cover di Cristina Cirilli).

Una scrittrice con un timbro originale, che si sta imponendo al paese delle patrie lettere, dove abitano un sacco di narratori clonati, uno vale l'altro, indistinguibili, alla moda, imposti dal marketing.

Scrittrice prolifica, in stato di grazia: basta dare un'occhiata al sito della casa editrice che ha fondato per far uscire romanzi che, pensiamo, gli editori non hanno degnato di uno sguardo, e peggio per loro. Senza piangersi addosso come fan tanti. E comunque la storia della letteratura è gravida di abbagli: Morselli morì inedito e “Il Gattopardo” ebbe molti rifiuti e uscì postumo. Si può continuare.
La Bernardini vive a Jesi (dove nacque Federico di Svevia) ha una biografia da cui emerge una personalità forte quanto eclettica: è imprenditrice, produce per il cinema, ha pubblicato quattro raccolte di versi, scrive anche per il teatro, recita, ha una sua compagnia (“Teatroluce”), con cui mette in scena Ionesco, Oscar Wilde, Tonino Guerra (di cui è stata amica), Neruda. Invitata dall'Istituto di Cultura del Cile, ha dato uno spettacolo di teatro e danza a Isla Negra, nel patio della casa natale del grande poeta ucciso nel '73 dai golpisti. A ennesima riprova della vitalità della provincia e i suoi “indigeni”.

Ciò che conquista è la sensualità del tempo, la sua intima musicalità è la cifra stilistica. Un ritmo narrativo quieto, morbido, che fluisce quasi da solo. E l'assoluta padronanza della storia nel suo insieme e dei personaggi ben scavati e lavorati sotto il lato socio-antropologico, storico e psicologico, a tratti psicanalitico, sino a ossificarsi negli archetipi del mondo di ieri, che ci siamo lasciati alle spalle col suo patrimonio di valori che forse troppo frettolosamente abbiamo rimosso, per finire in una modernità schizofrenica e alienante, che ci rende infelici.

Per cui Bernardini lascia quasi trasparire sulla sfondo un'esile, tenera nostalgia per un universo – affrescato con leggerezza e sapienza - con le sue leggi, la sua etica intrisa di superstizioni e magia, la pietas quale collante del tessuto sociale, i miti e i riti immobili nel tempo, l'epos ancestrale di un'Italia contadina autarchica, la spiritualità quasi primitiva, e dove comunque c'era un ascensore sociale che oggi si è bloccato, facendoci regredire.

La storia ha un che di felliniano per la sua coralità, tanti sono i personaggi semanticamente affollati e ricchi di quella complessità inconscia, interiore che muove le loro vite, intreccia i destini ora gai ora tragici, rimodula di continuo i format esistenziali. Ma ha anche degli snodi da tragedia greca, con le corifee a sottolineare gli sviluppi sotto l'incedere inesorabile nel tempo.

Pennellate di dialetto sparse qua e là, pulsanti nel cuore arcaico di una terra descritta con grande pregnanza evocativa, rendono la prosa molto vivida e la avvicinano ai canoni narrativi del naturalismo francese (Zola) come del verismo italiano (Verga), ma anche, in certi squarci, al realismo magico di Garcìa-Màrquez (“la neve copriva ogni peccato”). Carsicamente poi si possono indovinare echi della Cina rurale (“Cielo cinese”, Pearl S. Buck) e dell'America disperata prima e dopo la guerra civile e il New Deal (da J. Steinbeck, “Pian della Tortilla”) a E. Caldwell (“La via del tabacco”).

Ci sono le due guerre, l'orrore nazi-fascista e la lotta partigiana, la povertà vissuta con pudore e dignità, l'emigrazione per cambiarsi la sorte, la fabbrica che arriva a sconvolgere le vite dei contadini (una fornace), col mobbing e la presa di coscienza politica in un'Italia che scivola da Giolitti a Mussolini e poi Badoglio, e da qui all'apocalisse (dilatata sino a oggi).

Costante dei personaggi: il desiderio impellente di emanciparsi, studiare per aprirsi la mente a nuovi mondi (su tutti Antonio, poi Toni, a Berlino). Assecondato da una Chiesa vicina agli “ultimi” incarnata da don Fernando (che mette su una scuola) e realizzato poi da Egle, una maestra ebrea in fuga dalla sua personale tragedia (e che poi sarà licenziata a causa delle leggi razziali e uccisa dal suo alunno in camicia nera).

La fiducia riposta nel sapere rimanda ai Lumi, alla razionalità (incombe un'epoca tecnologica e scientifica incarnata dall'auto di Giacomo). Commuove poi quel modo unico di essere donna di tutti i personaggi femminili (a ben vedere le vere protagoniste) e che si può decodificare come una contaminazione della rivoluzione femminista europea (la Luxembourg e Turati hanno appena fondato il Partito Socialista e il suffragio universale è vicino): da Berta alla madre Annetta, e poi Giustina, Tonia, Giulia, Clotilde, Sofia, Dania, Ines, ecc. Il loro legame è forte e l'essere complici dà energia e saggezza. Toccanti le loro vicissitudini nel campo di prigionia, tra porci e megere. Donne solari, forti, appassionate, ma anche femmine sensuali che cercano la loro dimensione, anche sessuale: Berta è stata la sposa di Salvo, rude nell'approccio erotico, ma morto il marito (fornace assassina), sposa Giacomo l'artigiano vedovo che indugia nei preliminari prima dell'estasi dei sensi (“entrò in lei, con passione, con furore, con timore, ma con infinita commozione”).

Ma piace anche questo trasfigurare del mondo contadino e artigianale (dove il rapporto con la terra, “il podere”, era viscerale, ontologico, immanente) in un'Italia borghese, industriale, da partite Iva diremmo oggi. Scansione resa in modo efficace e convincente.

Intrigano infine i due livelli su cui si regge l'architettura del romanzo: ciò che accade nel Paese ha continui riflessi, echi, risonanze in questa minuscola Macondo spersa fra le montagne del Conero: dal “particulare” all'universale, un'osmosi che impreziosisce un'opera polisemica, che può essere letta anche come documento storico che emana l'ampio respiro dei grandi romanzi ottocenteschi.

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