(Elisa Fattori, ph: M.Giarracca) |
Domanda: Quando ha deciso che recitare sarebbe stata la mission della sua vita?
Risposta: Non c’è stato un vero e proprio momento, ma un insieme di segnali che adesso, riguardando indietro, vedo che erano effettivamente un mio “cercare” di avvicinarmi al mondo dello spettacolo. Alle medie avevo frequentato un laboratorio di recitazione negli orari extrascolastici, ma non era stata un’esperienza positiva, perché il corso non era tenuto da un insegnante professionale e quindi, invece di spingermi a “tirare fuori” quella che poteva essere la mia voglia di recitare, di esibirmi – a quel tempo ero molto timida – mi aveva frenato. Ma non c’è stata una vera e propria “illuminazione”. Quello che ho fatto, finito il liceo, è stato iscrivermi al DAMS di Bologna con indirizzo Cinema per studiare e conoscere anche in maniera teorica questo lavoro e crearmi un bagaglio culturale.
D. Quello che si dice il fuoco della passione per l'arte della recitazione...
R. La passione è un qualcosa che senti che c’è, senza capire perché. Tutt’ora non so perché ho intrapreso questa strada, perché ho voluto fare l’attrice, e perché nella vita sto facendo questo.
D. La famiglia condivide la scelta?
R. La mia è una famiglia normalissima, che però non ha mai avuto contatti con il mondo della recitazione. Oltretutto sono nata all’inizio degli anni Ottanta in Veneto, dove la mentalità delle persone è molto concreta. E penso che i miei genitori, non avendo mai avuto a che fare con questo mondo, l’abbiano sempre considerato un qualcosa di “diverso”. La timidezza non mi faceva esprimere apertamente tutti i miei pensieri o ambizioni e così, quando mi sono iscritta alla prima scuola di recitazione, l’ho frequentata di nascosto per un anno, portato a termine senza dire niente a nessuno. Mi ero organizzata economicamente: per pagare le rette utilizzavo i miei risparmi. La loro preoccupazione si è accentuata quando mi sono trasferita a Roma. Ora, dopo quindici anni, la mia scelta è stata “metabolizzata”.
D. A Roma cosa è successo?
R. Il primo insegnante è stato Giorgio Trestini, anziano attore cinematografico e televisivo grazie al quale nel 2000 ho studiato un classico metodo “accademico italiano”. Dopo il diploma di biennio al suo “Teatro Bibiena”, mi sono iscritta alla “Scuola Teatro Colli”, che si basa sul “Metodo Stanislavskij/Strasberg”, che demolisce la recitazione accademica. Le primissime esperienze professionali sono state all’interno della “Colli”: era una scuola selettiva (eravamo partiti quasi in 50 e ci siamo diplomati in una decina) e gli esami si basavano soprattutto sulla messinscena di spettacoli in un vero teatro e davanti al pubblico. Le vere esperienze professionali si sono presentate quando la scuola è terminata. Sono partita da compagnie che si potevano collocare tra l’amatoriale e il semiprofessionale poiché, a 23 anni e appena uscita dall’accademia, facevo spesso dei provini senza sapere dove fossi, a volte presentando monologhi sbagliati, inadatti per la mia età, personalità e tipo.
D. A differenza del passato, o in altre culture, in Italia l'attore è guardato con sospetto...
R. Purtroppo il lavoro dell’attore non è considerato una vera e propria professione e non viene incentivato o protetto. Non esiste un Albo degli attori, non c’è un Ordine professionale come quello di avvocati o giornalisti. Le scuole d’Arte Drammatica sovvenzionate dallo Stato sono poche: a Roma c’è “l’Accademia Silvio D’Amico” e il “Centro Sperimentale di Cinematografia”, c’è l’“Alessandra Galante Garrone” a Bologna; poi ci sono le scuole dei teatri stabili come “Il Piccolo” di Milano, il “Teatro Filodrammatici” e il “Teatro Stabile” di Genova, ma sono scuole che prevedono dieci/quindici allievi l’anno, e quindi entrarvi è difficilissimo. E poi esistono una miriade di scuole private, che sarebbe giusto venissero regolarizzate, riconosciute (se effettivamente serie) e delle quali l’attestato conseguito potrebbe essere considerato un vero diploma professionale. Questo permetterebbe agli insegnanti di recitazione di essere valutati a pieno titolo come docenti, e al diplomato il riconoscimento “legale” di interprete e la possibilità di diventare a sua volta insegnante. Così anche i registi o i casting director potrebbero essere più esigenti: i provini sarebbero riservati solamente agli attori con le conoscenze e le competenze “legalmente riconosciute”, come nei concorsi statali. Inoltre nelle scuole elementari, medie e superiori, si dovrebbe insegnare la Storia del Teatro e la recitazione così come si insegna la Storia dell’Arte: seminare conoscenza significa dare modo di appassionarsi. Andando spesso a teatro mi sono resa conto che chi lo frequenta abitualmente ha minimo sessant’anni. Ormai gli abbonamenti appartengono solo agli anziani, mentre le persone più giovani non hanno questo gusto. Se i teatri sono vuoti non è perché la gente preferisca stare a casa a guardare la televisione, ma perché non sa quello che può vedere, le emozioni che può avere. Una volta la RAI trasmetteva il teatro in prima serata e proponeva opere di importanti drammaturghi, da Čechov a Pirandello. Ora si trasmettono le fiction e i telefilm ma “Il Gabbiano” di Čechov nessuna rete televisiva avrebbe il coraggio di riproporlo. Reintroducendo nelle scuole la visione di opere teatrali, si farebbe assaporare ai ragazzi – gli adulti del domani – ciò che il teatro può dare, anche perché è parte della Storia della Letteratura, come la narrativa e la poesia. Inoltre presentare il teatro nelle scuole darebbe la possibilità a tantissime compagnie di fare i matinée, le rappresentazioni teatrali del mattino, e questo creerebbe reali opportunità di lavoro. Più semplicemente, connettendosi a Internet e accedendo a YouTube, si visualizzano centinaia di spettacoli completi che – a costo zero – si potrebbero far vedere a scuola. La drammaturgia teatrale, come tutta la letteratura, può dare grandissimi insegnamenti morali, d’altronde il teatro è nato in Grecia come momento collettivo e catartico: vedere “succedere” determinate situazioni, viverle attraverso i propri occhi, interiorizzarle, provare forti emozioni per poi “liberare” l’anima è un’attività terapeutica. Al giorno d’oggi le persone non sono educate a provare emozioni, perché i contenuti proposti – da un punto di vista morale e mentale – non coinvolgono e non toccano le corde profonde dei sentimenti umani. Prendiamo a esempio Medea, che uccide i propri figli per vendicarsi del marito Giasone: è cronaca attuale. I fatti trattati dalla “tragedia greca” sono più contemporanei di quanto si possa pensare.
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