di Francesco Greco. LECCE – Il segno è sovrano nell'arte di Roberto Russo. Che dopo aver girovagato per il mondo (in Germania è molto conosciuto e apprezzato) torna a casa. A Lecce (studiò all'Accademia di Belle Arti), per un “tribute” alla “piccola patria” (dal 4 al 13 ottobre 2015, ex Conservatorio Sant'Anna, vernissage domenica 4 alle ore 19.00, titolo della personale: “Sud a Capo: la pittura del colore tra segni e forme”, evento che coincide con la giornata del contemporaneo promossa dall'Amaci, associazione musei di arte contemporanei italiani, patrocini: Comuni di Alessano e Lecce, organizzato da e20cult, orari: 10-13/17-20).
E dunque, il segno semanticamente affollato, percepito e vissuto quasi come una “fede” e a cui l'artista affida i suoi messaggi ora teneri e innocenti, ora graffianti e destrutturanti. Come se volesse riscrivere una nuova realtà, un altro mondo, un uomo migliore. Il segno rabbioso e solare, dolce e pregno di mille sensazioni e contaminazioni.
Grande maestria e padronanza della sua arte, Russo affida le “visioni” a una ricchezza cromatica che è anche, o soprattutto, di contenuti. Sarebbe troppo ovvio parlare di astrattismo e di informale, ma alla fine anche queste categorie risulterebbero una diminutio per il mondo interiore dell'artista pugliese (è nato a Montesardo, nel Sud Salento).
Il segno, a ben vedere, è solo l'input che gli consente di manifestare la sua grande ansia di libertà. Che in ogni sua opera, o quasi, affida a una simbologia infantile, naif: una piuma che leggera volteggia nel cielo, un uccellino, una lumaca che timida ci suggerisce di fermarsi a godere un tramonto, una chiacchierata con gli amici, un bicchiere di vino. Pare quasi che l'artista ci voglia dire di rivedere la gerarchia della nostra personale scala dei valori.
Il segno di Russo ha un suo codice, immediatamente riconoscibile nella babele semantica che ci avvolge. Un linguaggio originale, essenziale, denso di dialettica. Come se volesse dare al mondo e l'uomo una nuova lingua: immaginare una realtà in progress, di cui poco sappiamo ma che egli ci assicura esista. Russo ci indica un'utopia possibile, da perseguire con decisione, per lasciarci alle spalle la volgarità del reale, l'abbrutimento dell'uomo ormai ripiegato su se stesso, senza luce, energia, incanto, innocenza.
L'artista invece ridà senso alle parole dopo essere giunto in una dimensione nuova, surreale, metafisica (gli oggetti quotidiani spesso volano leggeri, e noi dovremmo librarci lievi nell'aria tersa, luminosa. In una delle sue opere giovanili intitolata “Melodie incatenate”, Russo dipinse due trombe incatenate, incapaci di far sentire la loro voce, poiché inibite da condizionamenti culturali, sociali, tabù ancestrali, tirannie invisibili.
La condizione dell'artista embedded che si muove tra conformismi, accademie, status quo cristallizzati. In una delle fasi da cui è passato, Russo ingabbiò il clero: vescovi e cardinali bloccati da corde ben tese, come se volesse immobilizzarli e se molte inibizioni dell'uomo libero venissero proprio dalla Chiesa. Parallelamente, quasi come un divertissment, ha portato avanti i ritratti dei personaggi delle sue due grandi passioni (oltre al Milan): il rock e il cinema, dandoci con grande realismo quelli di Eduardo, Fellini e Mastroianni, Anna Magnani, la Loren, Clint Eastwood e poi i Beatles, Phil Manzanera e altre rockstar.
L'ultimo Russo, quello in mostra a Lecce (poi, dall'8 al 20 dicembre sarà a Palazzo Legari, Alessano), fra le infinite password estetiche possibili, riflette sulla comunicazione della disabilità (attingendo alla sua biografia: da 28 anni lavora in un istituto di recupero) come forma di arte, osservando i segni astrusi dei diversamente abili, rielaborandoli con la sua affinata sensibilità, cercando la bellezza nella purezza di quei messaggi e nella loro grande forza dialettica. Impregnando così il segno di una sua tragicità primitiva, scompone il mondo e la realtà in mille tessere, smonta il puzzle come farebbe un bambino che sventra un giocattolo per guardarci dentro e lo ricompone, riscrivendone l'intima etimologia, per immaginarlo diverso, più umano e vivibile, quasi come in un sogno. Una dimensione onirica in cui a tutti noi piacerebbe vivere, al di là del dolore, la speranza, il bene e il male.
E dunque, il segno semanticamente affollato, percepito e vissuto quasi come una “fede” e a cui l'artista affida i suoi messaggi ora teneri e innocenti, ora graffianti e destrutturanti. Come se volesse riscrivere una nuova realtà, un altro mondo, un uomo migliore. Il segno rabbioso e solare, dolce e pregno di mille sensazioni e contaminazioni.
Grande maestria e padronanza della sua arte, Russo affida le “visioni” a una ricchezza cromatica che è anche, o soprattutto, di contenuti. Sarebbe troppo ovvio parlare di astrattismo e di informale, ma alla fine anche queste categorie risulterebbero una diminutio per il mondo interiore dell'artista pugliese (è nato a Montesardo, nel Sud Salento).
Il segno, a ben vedere, è solo l'input che gli consente di manifestare la sua grande ansia di libertà. Che in ogni sua opera, o quasi, affida a una simbologia infantile, naif: una piuma che leggera volteggia nel cielo, un uccellino, una lumaca che timida ci suggerisce di fermarsi a godere un tramonto, una chiacchierata con gli amici, un bicchiere di vino. Pare quasi che l'artista ci voglia dire di rivedere la gerarchia della nostra personale scala dei valori.
Il segno di Russo ha un suo codice, immediatamente riconoscibile nella babele semantica che ci avvolge. Un linguaggio originale, essenziale, denso di dialettica. Come se volesse dare al mondo e l'uomo una nuova lingua: immaginare una realtà in progress, di cui poco sappiamo ma che egli ci assicura esista. Russo ci indica un'utopia possibile, da perseguire con decisione, per lasciarci alle spalle la volgarità del reale, l'abbrutimento dell'uomo ormai ripiegato su se stesso, senza luce, energia, incanto, innocenza.
L'artista invece ridà senso alle parole dopo essere giunto in una dimensione nuova, surreale, metafisica (gli oggetti quotidiani spesso volano leggeri, e noi dovremmo librarci lievi nell'aria tersa, luminosa. In una delle sue opere giovanili intitolata “Melodie incatenate”, Russo dipinse due trombe incatenate, incapaci di far sentire la loro voce, poiché inibite da condizionamenti culturali, sociali, tabù ancestrali, tirannie invisibili.
La condizione dell'artista embedded che si muove tra conformismi, accademie, status quo cristallizzati. In una delle fasi da cui è passato, Russo ingabbiò il clero: vescovi e cardinali bloccati da corde ben tese, come se volesse immobilizzarli e se molte inibizioni dell'uomo libero venissero proprio dalla Chiesa. Parallelamente, quasi come un divertissment, ha portato avanti i ritratti dei personaggi delle sue due grandi passioni (oltre al Milan): il rock e il cinema, dandoci con grande realismo quelli di Eduardo, Fellini e Mastroianni, Anna Magnani, la Loren, Clint Eastwood e poi i Beatles, Phil Manzanera e altre rockstar.
L'ultimo Russo, quello in mostra a Lecce (poi, dall'8 al 20 dicembre sarà a Palazzo Legari, Alessano), fra le infinite password estetiche possibili, riflette sulla comunicazione della disabilità (attingendo alla sua biografia: da 28 anni lavora in un istituto di recupero) come forma di arte, osservando i segni astrusi dei diversamente abili, rielaborandoli con la sua affinata sensibilità, cercando la bellezza nella purezza di quei messaggi e nella loro grande forza dialettica. Impregnando così il segno di una sua tragicità primitiva, scompone il mondo e la realtà in mille tessere, smonta il puzzle come farebbe un bambino che sventra un giocattolo per guardarci dentro e lo ricompone, riscrivendone l'intima etimologia, per immaginarlo diverso, più umano e vivibile, quasi come in un sogno. Una dimensione onirica in cui a tutti noi piacerebbe vivere, al di là del dolore, la speranza, il bene e il male.