“Il canto dell’arena” che seduce la nuova Africa

di Francesco Greco - L'incipit è delizioso. Sospeso fra sociologia e antropologia, appare il primo archetipo: il professor Niang è felice, l'allievo Nalla, 12 anni, unico figlio dell'ostetrica Diatta e il veterinario Ndiogu, sta imparando il complemento oggetto (“Si interessava alle lezioni e progrediva”).

La nuova Africa ce la farà solo se andrà avanti coraggiosamente sulla strada della conoscenza (“Il sapere è una bella cosa”), se si scalderà al suo fuoco: solo così potrà travolgere steccati, muri, tabù ancestrali, e vincere sui “briganti” in agguato sul fiume. Conoscere la libertà, la dignità, il progresso. Pare una citazione di Gramsci: il padrone è padrone perché conosce più parole dell'operaio.
Ma Nalla è un bambino facile alla distrazione, forse è l'età, o forse no: mentre il paziente Niang parla, si perde nei suoi pensieri: il canto dell'arena lo attrae più della grammatica. L'arena dove si esibisce il lottatore Malaw. Ecco l'altro archetipo del continente: la lotta come strumento di emancipazione, una dialettica imprescindibile.

Un bambino così non può non mettere in ansia i genitori piccolo borghesi che molto stanno investendo su di lui e che riflettono sulla sua condizione di figlio unico: Nalla si sente solo, non ha un fratellino o una sorellina con cui giocare, tanto da rifugiarsi a volte dalla nonna Fari “sempre dolce e radiosa come la rugiada del primo mattino”.

I genitori sono amareggiati: Diatta, in particolare, si sente in colpa, poiché “in qualità di prima ostetrica alla Maternità, aiutava, ogni santo giorno, decine di madri...”. Lei invece ha generato solo una volta. E' il terzo archetipo, la fertilità, il mito della Grande Madre: non procreare numerose volte, in Africa, è quasi una condanna, una vergogna, un motivo di cui rattristarsi.

La donna è ancor più triste perché il marito vorrebbe far visitare Nalla da uno psicologo a Dakar, ipotesi che sconvolge la moglie (“Diatta prende a immaginare anche tutto quello che direbbero vicini e conoscenti... aveva fatto capire loro, educatamente, che nono si dovevano occupare dei fatti suoi”). Come dire: uno solo figlio e forse manco del tutto normale, che anzi si pensa posseduto da un qualche spirito maligno (la “schiena calda”), forse bisognoso di un esorcismo (la superstizione, ecco ancora un altro archetipo).

“Il canto dell'arena”, di Aminata Sow Fall, Edizioni Modu Modu, Trepuzzi, Lecce 2014, pp. 140, euro 9,00 (traduzione di Antonella Colletta, cover di Miguel Rodrigues, impaginazione di Carlo Bossi), è un romanzo delicato nella scrittura - che si avvale nella parte conclusiva di un prezioso glossario per spiegare le parole incontrate - ma deciso e pregno nei temi forti su cui scorre.

E si può spiegare anche con la biografia dell'autrice: nata nel 1941 a Saint-Louis, nel nord del Senegal, ciò che scrive finisce direttamente nei libri di testo delle scuole del paese. E' quel che si può dire un'animatrice culturale. Dal 1979 al 1988 è stata direttrice delle Lettere e la Proprietà intellettuale presso il Ministero della Cultura. E' inoltre Dottore Honoris Causa del Mont Holyoke College, South Hadley, Massachusetts e altre università. Questo romanzo nel 2006 è diventato un film del regista Cheikh A. Ndiaye.

Il rapporto d'amicizia di Nalla con i lottatori Andrè prima e Malaw dopo ha poi il valore dell'iniziazione a un mondo che non è quello d'origine e che conquista il bambino ostacolato dalla madre (che ha studiato in Europa) la quale non dà importanza alle radici e alle superstizioni (altro archetipo). Alla vita, alla morte (la “Vera Dimora”), al coraggio (“la paura è un disonore”, altro archetipo). Il venditore di conkom e Malaw lo affascinano con la loro affabulazione. Parallela a quella della nonna quando piange il figlio Sidy (“è partito senza lasciarmi nulla”) e il marito perduti per il vaiolo e che gli insegna l'oblio senza il quale “nessuno potrebbe vivere la propria vita sino in fondo” (ma la figlia Diatta non condivide i suoi strumenti pedagogici da Medio Evo).

La senegalese Aminata Sow Fall ripropone, vivificandoli, molti archetipi, in un'Africa sospesa fra passato e futuro, distante però dell'oleografia che ci siamo costruiti nel Novecento, un pò “mal d'Africa” (Karen Blixen) e un pò safari (Hemingway), a uso e consumo di ristrette nicchie occidentali che a questi luoghi comuni vorrebbero schiacciare un continente ricco, vivo, colmo di dignità e senso dell'onore (“nessuno può disonorarci”).

Nalla, Malaw, Andrè, un pò anche Ndiogu invece ci dicono che la loro è un'altra Africa, sedotta dal tam-tam dei tamburi e dalla lotta, dall'eccitazione febbricitante di una vita che, dando il giusto rilievo al passato, è tutta da scrivere nel domani che è già qui.

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