di Francesco Greco - Charles Bukowski ha disarticolato l'idea di America, spargendo manciate di acido. Ha svelato l'altra faccia dell'America, quella alternativa, underground. Che non vota e non va ad agitare bandierine alle convention dei candidati alla Casa Bianca. L'America disperata, nichilista, che non si fa illusioni, perché la “way american of life” per loro è propaganda.
L'America del sottosuolo sudicio, maleodorante, dei burfly saggi come filosofi al bancone del bar malfamato, delle prostitute dai sogni sfatti, dei mille lavori, gli sberleffi al potere e alla quiete borghese. Quella dell'ossessione per le armi omicide, il militarismo alla “Apocalypse Now”, il colonialismo “nimby”, col mondo scambiato per un “cortile Usa”, la finanza creativa che deruba milioni di uomini, il darwinismo sociale.
Chi ha amato i suoi romanzi e i racconti (“Storie di ordinaria follia”, “Taccuino di un vecchio porco”, “Donne”. “Factotum”, “Musica per organi caldi”, “Panino al prosciutto”, “Post Office” e poi le poesie di “L'amore è un cane che viene dall'inferno”, “Los Angeles 462-0614”, etc.) ritroverà il suo scrittore e poeta cult nello stesso stato di grazia in “Mentre Buddha sorride”, Guanda Editore, Milano, 2015, pp. 140, euro 14,50 (Collana “Quaderni della Fenice”), efficace traduzione dall'inglese a fronte di Simona Viviani.
Sono poesie prese dalle sue raccolte, una sorta di antologia proposta a chi del grande poeta nato in Germania (Andernach, 1920) magari non ha mai sentito parlare. E dove, in tutto il suo nitore, si dispiega la poetica bukowskiana (inclusa la passione per il suo Céline): il disincanto e il cinismo, la dolcezza e la noia, l'inutilità e la relatività di ogni sogno, il prossimo e la sua abissale, irrimediabile stupidità, l'incapacità dell'uomo di elevare lo spirito in un possibile iperurano, quasi godesse del limo in cui si rivolta .
Non c'è speranza nell'universo del poeta che si ritrova nel dna quell'istinto di morte (tanathos) che un continente vecchio coltiva anche attraverso le ideologie, oltre che nell'estetica putrefatta. Uomini e donne straniati, lupi all'altro uomo, che il poeta vede alle corse (“lo speaker ha urlato / “ECCO CHE ARRIVA DOLORE!”) dove giocano con la sorte, al bar tra i falliti e gli ubriaconi, nei motel squallidi e tristi, nelle case disordinate, arredate malamente.
L'alcol aiuta molto a sopravvivere (“bevo per conto mio e per me stesso”, “sono entrato nel gruppo dei grandi ubriaconi / dei secoli: / Li Po, Toulouse-Lautrec, Crane, Faulkner”) a sopportare i graffi profondi del destino, ma anche la musica classica alla radio, la discreta compagnia dei gatti, topos della poesia di Bukowski (“sono rientrati tutti i gatti tranne Beeker”) e il sesso disperato, quasi meccanico: “la afferro da dietro / la giro / e la bacio... / invece di andare al negozio / mi porta nella sua / camera da letto”. Ma anche l'autoiroinia: “non ho scritto / niente./ trovo sollazzo / in una funzione / comune: / qualcosa / finalmente / da mettere / su / carta”.
Eppure i protagonisti delle poesie (gli stessi dei romanzi: i suoi alter ego), pur incattiviti dalla vita, non cedono, non si arrendono: hanno sentimenti, passioni, ironia. Non si sono fatti inacidire, conservano in fondo una dignità, un fuoco segreto, non si lamentano: quel che conta è arrivare a domani, anzi, hanno ancora la forza di illudersi e sognare l'albatros (il mitico uccello baudelairiano).
Sanno d'essere attesi dall'infelicità, sia che si nasca nelle “belle case / sulla riva dell'oceano”, oppure ai margini “dentro queste 4 mura / 30 kilometri nell'entroterra”. E tutti fottuti (verbo caro al poeta) dal passare del tempo, come il divo “con le fossette / era bello e affascinante”. Era.
Ormai insensibili alla volgarità dei media, la bruttezza ha tracimato, il dolore senza antidoti della civiltà dello spettacolo, la deriva della bellezza: “la tv mi ha assuefatto / con facce ammuffite che non dicono nulla”, “c'è David Letterman”. Di qua dell'oceano abbiamo Giletti e Bruno Vespa: facce “ammuffite” di cui anche Buddha sorride, saggio e beffardo.
L'America del sottosuolo sudicio, maleodorante, dei burfly saggi come filosofi al bancone del bar malfamato, delle prostitute dai sogni sfatti, dei mille lavori, gli sberleffi al potere e alla quiete borghese. Quella dell'ossessione per le armi omicide, il militarismo alla “Apocalypse Now”, il colonialismo “nimby”, col mondo scambiato per un “cortile Usa”, la finanza creativa che deruba milioni di uomini, il darwinismo sociale.
Chi ha amato i suoi romanzi e i racconti (“Storie di ordinaria follia”, “Taccuino di un vecchio porco”, “Donne”. “Factotum”, “Musica per organi caldi”, “Panino al prosciutto”, “Post Office” e poi le poesie di “L'amore è un cane che viene dall'inferno”, “Los Angeles 462-0614”, etc.) ritroverà il suo scrittore e poeta cult nello stesso stato di grazia in “Mentre Buddha sorride”, Guanda Editore, Milano, 2015, pp. 140, euro 14,50 (Collana “Quaderni della Fenice”), efficace traduzione dall'inglese a fronte di Simona Viviani.
Sono poesie prese dalle sue raccolte, una sorta di antologia proposta a chi del grande poeta nato in Germania (Andernach, 1920) magari non ha mai sentito parlare. E dove, in tutto il suo nitore, si dispiega la poetica bukowskiana (inclusa la passione per il suo Céline): il disincanto e il cinismo, la dolcezza e la noia, l'inutilità e la relatività di ogni sogno, il prossimo e la sua abissale, irrimediabile stupidità, l'incapacità dell'uomo di elevare lo spirito in un possibile iperurano, quasi godesse del limo in cui si rivolta .
Non c'è speranza nell'universo del poeta che si ritrova nel dna quell'istinto di morte (tanathos) che un continente vecchio coltiva anche attraverso le ideologie, oltre che nell'estetica putrefatta. Uomini e donne straniati, lupi all'altro uomo, che il poeta vede alle corse (“lo speaker ha urlato / “ECCO CHE ARRIVA DOLORE!”) dove giocano con la sorte, al bar tra i falliti e gli ubriaconi, nei motel squallidi e tristi, nelle case disordinate, arredate malamente.
L'alcol aiuta molto a sopravvivere (“bevo per conto mio e per me stesso”, “sono entrato nel gruppo dei grandi ubriaconi / dei secoli: / Li Po, Toulouse-Lautrec, Crane, Faulkner”) a sopportare i graffi profondi del destino, ma anche la musica classica alla radio, la discreta compagnia dei gatti, topos della poesia di Bukowski (“sono rientrati tutti i gatti tranne Beeker”) e il sesso disperato, quasi meccanico: “la afferro da dietro / la giro / e la bacio... / invece di andare al negozio / mi porta nella sua / camera da letto”. Ma anche l'autoiroinia: “non ho scritto / niente./ trovo sollazzo / in una funzione / comune: / qualcosa / finalmente / da mettere / su / carta”.
Eppure i protagonisti delle poesie (gli stessi dei romanzi: i suoi alter ego), pur incattiviti dalla vita, non cedono, non si arrendono: hanno sentimenti, passioni, ironia. Non si sono fatti inacidire, conservano in fondo una dignità, un fuoco segreto, non si lamentano: quel che conta è arrivare a domani, anzi, hanno ancora la forza di illudersi e sognare l'albatros (il mitico uccello baudelairiano).
Sanno d'essere attesi dall'infelicità, sia che si nasca nelle “belle case / sulla riva dell'oceano”, oppure ai margini “dentro queste 4 mura / 30 kilometri nell'entroterra”. E tutti fottuti (verbo caro al poeta) dal passare del tempo, come il divo “con le fossette / era bello e affascinante”. Era.
Ormai insensibili alla volgarità dei media, la bruttezza ha tracimato, il dolore senza antidoti della civiltà dello spettacolo, la deriva della bellezza: “la tv mi ha assuefatto / con facce ammuffite che non dicono nulla”, “c'è David Letterman”. Di qua dell'oceano abbiamo Giletti e Bruno Vespa: facce “ammuffite” di cui anche Buddha sorride, saggio e beffardo.