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Le sentenze hanno suscitato l’indignazione del mondo interno, in parte perché tre dei condannati a morte al momento del loro arresto erano minorenni mentre sette uomini sono sciiti, che sono discriminati e oppressi dal governo sunnita. Tra i condannati vi è anche il popolare chierico sciita Sheikh Nimr al-NIMR, critico del regime e suo nipote Ali al-Nimr, che aveva solo 17 anni al momento del suo arresto. La sentenza si basa su dichiarazioni rese sotto "tortura", hanno dichiarato le madri dei cinque prigionieri sciiti in una lettera aperta pubblicata mercoledì. I loro figli hanno affrontato il processo senza avere la possibilità di nominare degli avvocati per difenderli ed i giudici non erano indipendenti. Amnesty International ha chiesto la sospensione delle pene capitali.
Le condanne di oggi si aggiungono alle tragiche statistiche dell’Arabia Saudita, dove, tra il 2014 e l’inizio del 2015, quasi la metà delle esecuzioni hanno riguardato crimini che non hanno provocato altre morti. Almeno 175 persone sono state giustiziate, cioè una media di una ogni due giorni. Un ritmo che, di recente, ha obbligato l’Arabia Saudita a reclutare nuovi boia. In un anno, la frequenza delle esecuzioni è decisamente aumentata.
Non è possible spiegare questo fenomeno, commenta Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, che mette il regno saudita al terzo posto dopo Cina e Iran nella lista dei Paesi che praticano la condanna capitale. L’Arabia Saudita è uno Stato autocratico, governato da una sola famiglia. Sulla vita quotidiana vigono leggi severe e il diritto saudita è basato sulla shari’a, la legge islamica. Le esecuzioni vengono spesso eseguite in pubblico, decapitazioni, flagellazioni, lapidazioni. Pratiche che spingono a fare un paragone con il gruppo di Daesh (ISIS), anche se le autorità saudite se ne guardano bene dal farlo.