di Francesco Greco. ROMA – Il caso ha incastonato il recente Sinodo sulla Famiglia fra il coming-out di Monsignor Charasma e Vatileaks. La società dello spettacolo - di cui il circo mediatico è la punta più avanzata - ha così quasi derubricato le sfaccettate e articolate riflessioni a eventi minori: è più facile sparare titoli su 6 colonne su un prelato che si dichiara omosessuale e sui “corvi” che volteggiano su Piazza San Pietro distribuendo fotocopie a giornalisti compiacenti che morbosamente le leggono come foriere di chissà quali bradisismi, documenti che magari avrebbero potuto avere senza tanti sotterfugi tanto sono colmi di finti scoop e sfondano porte aperte. Ignorando che la Chiesa per prima è impegnata in un'operazione di trasparenza e di rinnovamento della sua mission, in cerca di una nuova immagine e percezione in linea con la complessità del III Millennio.
E' utile perciò sapere cosa s'è detto, gli argomenti affrontati, le analisi sviluppate. Lo facciamo con la professoressa Cettina Militello, Siciliana (Trapani), numerose pubblicazioni nel c.v., laurea in Filosofia e Teologia, docente di Ecclesiologia, Liturgia, Mariologia presso alcune facoltà ecclesiastiche di Roma, dirige dal 2002 la cattedra Donna e Cristianesimo alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum.
Domanda: Quali le determinazioni più innovative del Sinodo?
Risposta: Non mi pare che il Sinodo abbia proposto “innovazioni”. Ha dato una lettura puntuale dello status critico della società e della famiglia, ma non parlerei di “innovazioni”. L’innovazione è una sola, a mio parere, l’avere ripreso lo stile “sinodale”, ossia il coinvolgimento di tutto il popolo di Dio relativamente ai problemi che la Chiesa si trova oggi ad affrontare. Purtroppo, malgrado il largo coinvolgimento, il Sinodo poi è espressione di una sola parte, i vescovi, e contano poco gli uditori o gli esperti. Tuttavia questo confronto globale che si è espresso in domande alle Chiese e si è tradotto in una faticosa elaborazione del consenso (tutte le proposizioni sinodali sono state approvate a maggioranza qualificata, ossia dei 2/3) dice un cambio di passo che fa bene sperare per il futuro. Emerge il bisogno di riscrivere l’architettura ecclesiale e di fare spazio al discernimento delle Chiese locali e, in esse, di tutti quanti le costituiscono. Certo, sono spigolature, ma centrano, io credo, il disegno di papa Francesco che però rinuncia a imporsi ma pazientemente lancia degli input e soprattutto sta in ascolto.
D. Si è letto molto un verbo, discernere: cosa vuol dire?
R. Come ho già scritto su "Vita Pastorale", il verbo, e analogamente anche il sostantivo, il sostantivo, risulta di due elementi: la particella dis, primo termine nei composti che affermano una divisione, separazione, distinzione, direzione, negazione, e il verbo cerno: separo, distinguo, mi accorgo, scorgo.
Potremmo dire che il discernimento implica sempre una scelta consapevole di divisione, separazione, direzione, negazione. Indica cioè una operazione che focalizza realtà confuse o contrapposte, alle quali bisogna scegliere di imprimere una direzione. Va da sé che in questo gioco si nega o si afferma qualcosa e si sceglie cosa affermare o negare. Alla dinamica di separazione e di distinzione si accompagna perciò anche una presa di coscienza positiva, un vedere chiaro, un rendersi conto. Insomma si tratta di un processo laborioso e tuttavia assolutamente necessario. Come operare delle scelte se non dis-cernendo? Come affrontare innanzitutto le situazioni e i problemi se non se ne ha chiarezza di visione e di giudizio?
Biblicamente discernimento non è parola neutra. Il verbo prevalente è dia-krino (cfr., ad es. Mt 16,3). Usato è però anche il sostantivo dia-krisis (cfr. Rom 14,9; 12,10; Eb 5,14). Emerge l’affinità con il sostantivo “crisi”, ahimè così presente alle nostre preoccupazioni familiari e sociali, politiche ed economiche. Viviamo la crisi come catastrofe, come momento drammatico di buia incertezza. In verità la crisi è momento propizio, che può aprire anche al futuro e alla crescita. Il NT usa anche il verbo dokimazo, provare, sottoporre a prova, discernere (cfr., ad es. Lc 12,56). Ciò che emerge è la necessità del doversi render conto, del dover vagliare e perciò giudicare, prima di operare una scelta quale che sia.
La Chiesa è vissuta per secoli nella ovvietà dei giudizi e delle scelte. Non l’ha messa in crisi, in atteggiamento di crisi, la mutazione culturale. Vi ha opposto anzi le sue sicurezze. Proprio questa incapacità di calarsi nel reale, di distinguerlo, giudicarlo, provarlo; proprio questa incapacità di prodursi in giudizi e attitudini inedite di negazione e nuove di affermazione ne ha segnato il distacco dalla storia, della cultura, dalla carne viva di quanti pure ancora, forse solo anagraficamente, ne fanno parte. Ecco perché discernimento è oggi una parola chiave. Implica una conversione profonda, un invito a ripensarsi e rinnovarsi e di affidarsi allo Spirito, il solo che possa guidarci in un autentico e pieno discernimento, ossia in una fruttuosa e profetica lettura del presente e perciò di aprirci al futuro.
D. I divorziati potranno accostarsi ai sacramenti?
R. Credo che il discorso è mal posto nella sua assolutezza. Già da tempo coppie in questa situazione vengono con discrezione ammesse all’eucaristia. A operare il discernimento sono coloro a cui le coppie stesse affidano il loro dramma, la loro scelta. Credo che si vada sulla linea del rendere più esplicito e più compartito questo percorso di accompagnamento e di misericordia. Sta alle Chiese locali, ai ministri della misericordia, muoversi con saggezza discernendo caso da caso, ovviamente.
D. L'idea di famiglia della Chiesa non è un pò datata?
R. Credo proprio di sì. Siamo succubi della famiglia così come la società di tempo in tempo l’ha voluto per legittimare se stessa e soprattutto per certificare la legittimità della filiazione, ossia della paternità . Di modelli di famiglia ne abbiamo tanti nel variare delle culture, sia storicamente, che nel presente. Come cristiani proponiamo una idealità , specchio, segno, del rapporto Cristo-Chiesa; ma dimentichiamo, appunto, che si tratta di una idealità , essa stessa poi formulata nella Scrittura in termini patriarcali. Sacrifichiamo così al mistero che essa veicola e addita – previa una riscrittura culturale – istanze di indole puramente socio-politiche e, soprattutto, pensiamo di potere imporre a tutta la cristianità modelli che l’Occidente stesso ormai non condivide. Si pensi alla realtà delle famiglie monoparentali, in continuo aumento nel mondo; si pensi alla poligamia, tutt’altro che dismessa; si pensi allo stesso divorzio che, tante volte, è nient’altro che una sorta di poligamia differita…
Invece dovremmo testimoniare l’amore ed educare all’amore, all’incontro. Personalmente resto turbata tutte le volte che dichiarano fallimento persone credenti, le quali hanno inteso celebrare un matrimonio sacramento, ma che non sono state preparate e poi accompagnate nella sua traduzione concreta. Trovo che la comunità anziché essere in piazza ideologicamente a difendere valori non negoziabili, dovrebbe fare pubblica penitenza per la solitudine in cui ha lasciato uomini e donne credenti, privandoli di quegli strumenti di accompagnamento – prima durante e dopo – che avrebbero potuto meglio orientarli, e poi guidarli, nell’esperienza dell’amore reciproco.
D. Sessualità del clero: come è stata affrontata?
R. Non mi pare si sia andati oltre le affermazioni ben note relative all’obbligo del celibato. Penso che il problema invece meriti specifici approfondimenti, a tutto campo. Il celibato, rara vocazione di alcuni, non comporta la dismissione della propria identità sessuale. Inoltre, imporlo a tutti i candidati agli ordini a prescindere da una autentica e specifica vocazione è residuo di quella misoginia che ha segnato le culture e dunque anche la Chiesa in Occidente. Spero che prima o poi si affronti diversamente il problema che, nella sua degenerazione, produce gli scandali che ben conosciamo. Mi risulta che papa Giovanni Paolo II, dopo un viaggio apostolico all’Est, guardando le foto dei presbiteri della Chiesa cattolica bizantina e confrontandone i numeri e le facce con quelli della Chiesa cattolico-romana pure presente in quella regione, abbia commentato, dinanzi a quella mescolanza gioiosa di presbiteri mogli e figli di varia età : “Non io, ma chi verrà dopo di me, questo problema deve affrontarlo”. Sì – non so se sia una leggenda metropolitana, mentre l’episodio di cui parlo mi è stato raccontato da testimoni – pare che San Giovanni Paolo II abbia anche detto che tre problemi la Chiesa avrebbe dovuto affrontare dopo di lui: il papato, il celibato, la questione donna…
D. Perché alcune chiese ammettono i preti con una famiglia tutta loro?
R. Perché attorno a Gesù c’erano persone sposate. Nel mondo ebraico il matrimonio costituiva una altissima forma di santificazione della vita. Erano impensabili il celibato e la verginità . Quando, pochissime volte – è il caso di Geremia e poi di Isaia – viene fatto divieto di sposarsi o si vive la tragedia della vedovanza è per significare al popolo il castigo che sta per abbattersi su di lui. Sappiamo della suocera di Pietro. Paolo afferma che anche lui avrebbe avuto diritto a condurre con sé una sorella anche se non lo ha fatto per amore del vangelo. Insomma, la vocazione alla verginità o al celibato, la continenza per Dio sono presenti in tutte le religioni – si pensi all’Oriente -, ma costituiscono delle eccezioni. Un tempo – lo dico a sottolineare le implicazioni culturali – anche i militari non potevano sposarsi se non a una certa età . L’idea era che così fossero più disponibili al servizio. Soggiaceva una idea negativa della donna, delle sue risorse, della sua capacità di accompagnamento. Non voglio tirarla per le lunghe… Per ritornare alla domanda, le Chiese che conoscono il ministero uxorato seguitano la prassi della Chiesa antica. Va detto che ci si sposa prima del diaconato e non sono ammesse, comunque vada, le seconde nozze. Anche queste Chiese però scelgono i vescovi tra i celibi, ossia tra i monaci. Segno evidente che la questione “famiglia”, la capacità cioè di gestire armonicamente i doveri verso la moglie e verso i figli, contrariamente a quanto troviamo scritto nelle Lettere pastorali, appaiono culturalmente inconciliabili con la conduzione e gestione di una Chiesa.
E' utile perciò sapere cosa s'è detto, gli argomenti affrontati, le analisi sviluppate. Lo facciamo con la professoressa Cettina Militello, Siciliana (Trapani), numerose pubblicazioni nel c.v., laurea in Filosofia e Teologia, docente di Ecclesiologia, Liturgia, Mariologia presso alcune facoltà ecclesiastiche di Roma, dirige dal 2002 la cattedra Donna e Cristianesimo alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum.
Domanda: Quali le determinazioni più innovative del Sinodo?
Risposta: Non mi pare che il Sinodo abbia proposto “innovazioni”. Ha dato una lettura puntuale dello status critico della società e della famiglia, ma non parlerei di “innovazioni”. L’innovazione è una sola, a mio parere, l’avere ripreso lo stile “sinodale”, ossia il coinvolgimento di tutto il popolo di Dio relativamente ai problemi che la Chiesa si trova oggi ad affrontare. Purtroppo, malgrado il largo coinvolgimento, il Sinodo poi è espressione di una sola parte, i vescovi, e contano poco gli uditori o gli esperti. Tuttavia questo confronto globale che si è espresso in domande alle Chiese e si è tradotto in una faticosa elaborazione del consenso (tutte le proposizioni sinodali sono state approvate a maggioranza qualificata, ossia dei 2/3) dice un cambio di passo che fa bene sperare per il futuro. Emerge il bisogno di riscrivere l’architettura ecclesiale e di fare spazio al discernimento delle Chiese locali e, in esse, di tutti quanti le costituiscono. Certo, sono spigolature, ma centrano, io credo, il disegno di papa Francesco che però rinuncia a imporsi ma pazientemente lancia degli input e soprattutto sta in ascolto.
D. Si è letto molto un verbo, discernere: cosa vuol dire?
R. Come ho già scritto su "Vita Pastorale", il verbo, e analogamente anche il sostantivo, il sostantivo, risulta di due elementi: la particella dis, primo termine nei composti che affermano una divisione, separazione, distinzione, direzione, negazione, e il verbo cerno: separo, distinguo, mi accorgo, scorgo.
Potremmo dire che il discernimento implica sempre una scelta consapevole di divisione, separazione, direzione, negazione. Indica cioè una operazione che focalizza realtà confuse o contrapposte, alle quali bisogna scegliere di imprimere una direzione. Va da sé che in questo gioco si nega o si afferma qualcosa e si sceglie cosa affermare o negare. Alla dinamica di separazione e di distinzione si accompagna perciò anche una presa di coscienza positiva, un vedere chiaro, un rendersi conto. Insomma si tratta di un processo laborioso e tuttavia assolutamente necessario. Come operare delle scelte se non dis-cernendo? Come affrontare innanzitutto le situazioni e i problemi se non se ne ha chiarezza di visione e di giudizio?
Biblicamente discernimento non è parola neutra. Il verbo prevalente è dia-krino (cfr., ad es. Mt 16,3). Usato è però anche il sostantivo dia-krisis (cfr. Rom 14,9; 12,10; Eb 5,14). Emerge l’affinità con il sostantivo “crisi”, ahimè così presente alle nostre preoccupazioni familiari e sociali, politiche ed economiche. Viviamo la crisi come catastrofe, come momento drammatico di buia incertezza. In verità la crisi è momento propizio, che può aprire anche al futuro e alla crescita. Il NT usa anche il verbo dokimazo, provare, sottoporre a prova, discernere (cfr., ad es. Lc 12,56). Ciò che emerge è la necessità del doversi render conto, del dover vagliare e perciò giudicare, prima di operare una scelta quale che sia.
La Chiesa è vissuta per secoli nella ovvietà dei giudizi e delle scelte. Non l’ha messa in crisi, in atteggiamento di crisi, la mutazione culturale. Vi ha opposto anzi le sue sicurezze. Proprio questa incapacità di calarsi nel reale, di distinguerlo, giudicarlo, provarlo; proprio questa incapacità di prodursi in giudizi e attitudini inedite di negazione e nuove di affermazione ne ha segnato il distacco dalla storia, della cultura, dalla carne viva di quanti pure ancora, forse solo anagraficamente, ne fanno parte. Ecco perché discernimento è oggi una parola chiave. Implica una conversione profonda, un invito a ripensarsi e rinnovarsi e di affidarsi allo Spirito, il solo che possa guidarci in un autentico e pieno discernimento, ossia in una fruttuosa e profetica lettura del presente e perciò di aprirci al futuro.
D. I divorziati potranno accostarsi ai sacramenti?
R. Credo che il discorso è mal posto nella sua assolutezza. Già da tempo coppie in questa situazione vengono con discrezione ammesse all’eucaristia. A operare il discernimento sono coloro a cui le coppie stesse affidano il loro dramma, la loro scelta. Credo che si vada sulla linea del rendere più esplicito e più compartito questo percorso di accompagnamento e di misericordia. Sta alle Chiese locali, ai ministri della misericordia, muoversi con saggezza discernendo caso da caso, ovviamente.
D. L'idea di famiglia della Chiesa non è un pò datata?
R. Credo proprio di sì. Siamo succubi della famiglia così come la società di tempo in tempo l’ha voluto per legittimare se stessa e soprattutto per certificare la legittimità della filiazione, ossia della paternità . Di modelli di famiglia ne abbiamo tanti nel variare delle culture, sia storicamente, che nel presente. Come cristiani proponiamo una idealità , specchio, segno, del rapporto Cristo-Chiesa; ma dimentichiamo, appunto, che si tratta di una idealità , essa stessa poi formulata nella Scrittura in termini patriarcali. Sacrifichiamo così al mistero che essa veicola e addita – previa una riscrittura culturale – istanze di indole puramente socio-politiche e, soprattutto, pensiamo di potere imporre a tutta la cristianità modelli che l’Occidente stesso ormai non condivide. Si pensi alla realtà delle famiglie monoparentali, in continuo aumento nel mondo; si pensi alla poligamia, tutt’altro che dismessa; si pensi allo stesso divorzio che, tante volte, è nient’altro che una sorta di poligamia differita…
Invece dovremmo testimoniare l’amore ed educare all’amore, all’incontro. Personalmente resto turbata tutte le volte che dichiarano fallimento persone credenti, le quali hanno inteso celebrare un matrimonio sacramento, ma che non sono state preparate e poi accompagnate nella sua traduzione concreta. Trovo che la comunità anziché essere in piazza ideologicamente a difendere valori non negoziabili, dovrebbe fare pubblica penitenza per la solitudine in cui ha lasciato uomini e donne credenti, privandoli di quegli strumenti di accompagnamento – prima durante e dopo – che avrebbero potuto meglio orientarli, e poi guidarli, nell’esperienza dell’amore reciproco.
D. Sessualità del clero: come è stata affrontata?
R. Non mi pare si sia andati oltre le affermazioni ben note relative all’obbligo del celibato. Penso che il problema invece meriti specifici approfondimenti, a tutto campo. Il celibato, rara vocazione di alcuni, non comporta la dismissione della propria identità sessuale. Inoltre, imporlo a tutti i candidati agli ordini a prescindere da una autentica e specifica vocazione è residuo di quella misoginia che ha segnato le culture e dunque anche la Chiesa in Occidente. Spero che prima o poi si affronti diversamente il problema che, nella sua degenerazione, produce gli scandali che ben conosciamo. Mi risulta che papa Giovanni Paolo II, dopo un viaggio apostolico all’Est, guardando le foto dei presbiteri della Chiesa cattolica bizantina e confrontandone i numeri e le facce con quelli della Chiesa cattolico-romana pure presente in quella regione, abbia commentato, dinanzi a quella mescolanza gioiosa di presbiteri mogli e figli di varia età : “Non io, ma chi verrà dopo di me, questo problema deve affrontarlo”. Sì – non so se sia una leggenda metropolitana, mentre l’episodio di cui parlo mi è stato raccontato da testimoni – pare che San Giovanni Paolo II abbia anche detto che tre problemi la Chiesa avrebbe dovuto affrontare dopo di lui: il papato, il celibato, la questione donna…
D. Perché alcune chiese ammettono i preti con una famiglia tutta loro?
R. Perché attorno a Gesù c’erano persone sposate. Nel mondo ebraico il matrimonio costituiva una altissima forma di santificazione della vita. Erano impensabili il celibato e la verginità . Quando, pochissime volte – è il caso di Geremia e poi di Isaia – viene fatto divieto di sposarsi o si vive la tragedia della vedovanza è per significare al popolo il castigo che sta per abbattersi su di lui. Sappiamo della suocera di Pietro. Paolo afferma che anche lui avrebbe avuto diritto a condurre con sé una sorella anche se non lo ha fatto per amore del vangelo. Insomma, la vocazione alla verginità o al celibato, la continenza per Dio sono presenti in tutte le religioni – si pensi all’Oriente -, ma costituiscono delle eccezioni. Un tempo – lo dico a sottolineare le implicazioni culturali – anche i militari non potevano sposarsi se non a una certa età . L’idea era che così fossero più disponibili al servizio. Soggiaceva una idea negativa della donna, delle sue risorse, della sua capacità di accompagnamento. Non voglio tirarla per le lunghe… Per ritornare alla domanda, le Chiese che conoscono il ministero uxorato seguitano la prassi della Chiesa antica. Va detto che ci si sposa prima del diaconato e non sono ammesse, comunque vada, le seconde nozze. Anche queste Chiese però scelgono i vescovi tra i celibi, ossia tra i monaci. Segno evidente che la questione “famiglia”, la capacità cioè di gestire armonicamente i doveri verso la moglie e verso i figli, contrariamente a quanto troviamo scritto nelle Lettere pastorali, appaiono culturalmente inconciliabili con la conduzione e gestione di una Chiesa.