Il Pansa-pensiero: la Resistenza? Romanzo criminale
di Francesco Greco - “Pansa, 80 anni raccontando l'Italiaccia”: è il titolo di un elzeviro apparso di recente sul “Corriere della Sera”. Dino Martirano che lo firma teorizza che il giornalista e scrittore piemontese “ha avviato nel 2003 con “Il sangue dei vinti” una meritoria opera di divulgazione dell'aspetto oscuro della Resistenza, fatta anche di delitti e lotte intestine...”.
Meritoria? Accidenti, occorrerà informare a stretto giro di posta (le mail per loro sono cose da marziani) i pochi partigiani ancora vivi che altro non sono stati che degli spietati assassini, belve assetate di vendetta.
Lo fa in buona fede, glielo si può riconoscere. Ma l'operazione non è meno biasimevole e intellettualmente disonesta: una forzatura semantica. Molti lo pensano, ma nessuno lo dice per spirito di casta. Contribuendo così a falsare la Storia.
“Orbace e moschetto / balilla perfetto”, Pansa derubrica un fenomeno complesso come la Resistenza - che per la prima volta dal 1861 unì gli italiani, in questo caso nel comune rifiuto della barbarie nazifascista - a fatti e fatterelli di vendette personali, di agguati da cavalleria rusticana, lavaggio di panni sporchi, che pure avvennero, e molti dei quali per sentito dire.
Mio padre Cosimo l'8 settembre 1943 era a Cefalonia, un capitano dell'Esercito riunì tutti i soldati sotto un ulivo e li informò della caduta di Mussolini mettendoli davanti a un bivio. Scelse la guerra partigiana nelle Brigate Internazionali e i sopravvissuti ai bombardamenti dei tedeschi che seguirono, risalirono i Balcani combattendo fino a quando non furono intercettati dai nazisti che li ammassarono su un treno diretto a un lager.
Pansa ritiene che se fossero rimasti fedeli al Duce la Storia si sarebbe evoluta nel modo che sappiamo? Non c'è alcuna discriminante fra chi restò col fascismo armeggiando con la Repubblica di Salò e chi decise di combatterlo? Il generoso candore di ventenni (mio papà era del '21) contro l'astuzia dei furbi che si imboscarono per riemergere a guerra finita per mungere i benefit?
Il suo approccio metodologico è venato di qualunquismo, come se scrivesse col manganello e l'olio di ricino o avesse qualcosa che freudianamente gli preme sulla coscienza. Non tiene conto delle complesse dinamiche interne della Storia: le vendette arrivarono dopo venti anni di violenze di ogni sorta, di fame, miseria, privazioni, abusi, discriminazioni. Questo forse non le giustifica ma le assolve. L'uomo è anche memoria e sangue, deve scagliarli da qualche parte.
Pansa non vuole rassegnarsi a capire che il soldato di Mussolini che dopo l'8 settembre prende il fucile è una cosa, perché possiede dei valori e una civiltà oggettivamente superiori. Questa è stata la Resistenza, e relativizzarla vuol dire far venir meno, prosciugare il collante che tiene insieme la coscienza del paese, atomizzandolo (cosa poi avvenuta ma per altre cause).
Quello che si vendica appena gliene si presenta l'opportunità non è il partigiano, ma l'uomo, stanco di anni di violenze d'ogni sorta. La vendetta è una cosa umana, un'opzione possibile, e infatti ci fu, ma fu un fatto privato, privo cioè di semantica politica: una reazione alla dignità oppressa, negata, insudiciata, un modo di rivendicarla e cercare di riprendersela.
Continuare a non distinguere le due dimensioni è diabolico, come perseverare nell'errore. Pansa non può mettere sullo stesso piano la guerra dei repubblichini e quella dei partigiani. Incarnano etiche diverse, opposte, visioni distanti anni-luce. Per par condicio cosa si dovrebbe fare, risalire a tutti gli orrori del ventennio, dalla marcia su Roma all'8 settembre? Così si riempirebbe una Treccani.
Meritoria? Accidenti, occorrerà informare a stretto giro di posta (le mail per loro sono cose da marziani) i pochi partigiani ancora vivi che altro non sono stati che degli spietati assassini, belve assetate di vendetta.
In tempo di folle relativismo e revisionismo sparsi ovunque e che spesso sfonda porte aperte (sull'unità d'Italia e Borboni, per esempio, già Carlo Alianello scrisse le cose che oggi dicono in tanti cantando nel coro), tutto è possibile, ma l'aggettivo “meritoria” appare un po' blasfemo e pregno di enfasi.
Pansa si è assunto, e non da oggi, il compito storico di banalizzare la Resistenza – che bene o male dovrebbe tracciare l'identità italiana e repubblicana, dovrebbe – raccogliendo aneddoti da dopolavoro ferroviario, estrapolati dal contesto più ampio e storico, e dandoci così una realtà parziale, distorta, a tratti falsa. Che gli storici di domani si incaricheranno comunque di formattare ex abrupto.
Lo fa in buona fede, glielo si può riconoscere. Ma l'operazione non è meno biasimevole e intellettualmente disonesta: una forzatura semantica. Molti lo pensano, ma nessuno lo dice per spirito di casta. Contribuendo così a falsare la Storia.
“Orbace e moschetto / balilla perfetto”, Pansa derubrica un fenomeno complesso come la Resistenza - che per la prima volta dal 1861 unì gli italiani, in questo caso nel comune rifiuto della barbarie nazifascista - a fatti e fatterelli di vendette personali, di agguati da cavalleria rusticana, lavaggio di panni sporchi, che pure avvennero, e molti dei quali per sentito dire.
Pansa accomuna il partigiano e il repubblichino, sovrapponendoli semanticamente, come facce della stessa italica medaglia, come se non ci fosse stata alcuna variante di natura etica, ideologica, politica, di civiltà e prospettiva a dividerle. E se darsi alla macchia per cacciare il fascismo oppressore e l'occupante brutale fosse stato un safari hemingwayano, un'avventura da tigrotti della Malesia e non una scelta di vita rischiosa, anche fisicamente, per un paese diverso.
Mio padre Cosimo l'8 settembre 1943 era a Cefalonia, un capitano dell'Esercito riunì tutti i soldati sotto un ulivo e li informò della caduta di Mussolini mettendoli davanti a un bivio. Scelse la guerra partigiana nelle Brigate Internazionali e i sopravvissuti ai bombardamenti dei tedeschi che seguirono, risalirono i Balcani combattendo fino a quando non furono intercettati dai nazisti che li ammassarono su un treno diretto a un lager.
Pansa ritiene che se fossero rimasti fedeli al Duce la Storia si sarebbe evoluta nel modo che sappiamo? Non c'è alcuna discriminante fra chi restò col fascismo armeggiando con la Repubblica di Salò e chi decise di combatterlo? Il generoso candore di ventenni (mio papà era del '21) contro l'astuzia dei furbi che si imboscarono per riemergere a guerra finita per mungere i benefit?
Il suo approccio metodologico è venato di qualunquismo, come se scrivesse col manganello e l'olio di ricino o avesse qualcosa che freudianamente gli preme sulla coscienza. Non tiene conto delle complesse dinamiche interne della Storia: le vendette arrivarono dopo venti anni di violenze di ogni sorta, di fame, miseria, privazioni, abusi, discriminazioni. Questo forse non le giustifica ma le assolve. L'uomo è anche memoria e sangue, deve scagliarli da qualche parte.
Pansa non vuole rassegnarsi a capire che il soldato di Mussolini che dopo l'8 settembre prende il fucile è una cosa, perché possiede dei valori e una civiltà oggettivamente superiori. Questa è stata la Resistenza, e relativizzarla vuol dire far venir meno, prosciugare il collante che tiene insieme la coscienza del paese, atomizzandolo (cosa poi avvenuta ma per altre cause).
Quello che si vendica appena gliene si presenta l'opportunità non è il partigiano, ma l'uomo, stanco di anni di violenze d'ogni sorta. La vendetta è una cosa umana, un'opzione possibile, e infatti ci fu, ma fu un fatto privato, privo cioè di semantica politica: una reazione alla dignità oppressa, negata, insudiciata, un modo di rivendicarla e cercare di riprendersela.
Continuare a non distinguere le due dimensioni è diabolico, come perseverare nell'errore. Pansa non può mettere sullo stesso piano la guerra dei repubblichini e quella dei partigiani. Incarnano etiche diverse, opposte, visioni distanti anni-luce. Per par condicio cosa si dovrebbe fare, risalire a tutti gli orrori del ventennio, dalla marcia su Roma all'8 settembre? Così si riempirebbe una Treccani.
La sua visione è manichea, imbevuta di subcultura cattolica: oh, povero fascista vittima del partigiano cattivo, preghiamo per la sua anima. Ma la Storia - Montanelli e Mack Smith ce lo insegnano, se non vogliamo risalire sino a Senofonte - non utilizza questi strumenti discutibili, spuri, altrimenti Alessandro Magno, Cesare, Carlo Magno, Federico di Svevia sarebbero dei volgari criminali.
Andando per cascine, malghe, fattorie a raccogliere storie (peraltro non verificabili), è un passatempo divertente, ci si ingozza di culatello e Sauvignon. Da qui però a scrivere la Storia riducendo la Resistenza a “cunti” alla Basile, novelle boccaccesche, scazzi fra paesani per un furto di galline, la distanza è la stessa che passa fra noi e Kepler 452b.
Andando per cascine, malghe, fattorie a raccogliere storie (peraltro non verificabili), è un passatempo divertente, ci si ingozza di culatello e Sauvignon. Da qui però a scrivere la Storia riducendo la Resistenza a “cunti” alla Basile, novelle boccaccesche, scazzi fra paesani per un furto di galline, la distanza è la stessa che passa fra noi e Kepler 452b.